La Cina e il monopolio del business delle terre rare
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Economia

La Cina e il monopolio del business delle terre rare

Ecco i tre modi in cui l'Occidente sta cercando ridurre la dipendenza da Pechino

"L'ottovolante delle terre rare", il New Yorker ha dato questo titolo all'ultima analisi sul business delle terre rare che ha pubblicato appena un paio di giorni fa. Cosa sono le terre rare? A cosa servono? Perché si dice che le guerre del futuro potranno dipendere dalla rapidità e dalla determinazione con cui una serie di paesi, Cina, Stati Uniti, Giappone e India in particolare, cercheranno di aggiudicarsene il monopolio? Quali sono i numeri, e i rischi, di questo settore? 

Le terre rare altro non sono che un gruppo di 17 preziosi metalli di difficilissima estrazione concentrati in una manciata di Paesi: Cina, Malesia, Stati Uniti, India e Australia e Russia. Questi metalli sono cruciali per lo sviluppo di tutti gli oggetti e apparecchi tecnologici di ultima generazione, dai tablet alle lampadine ecologiche, dalle batterie ai sistemi per la raffinazione del petrolio, e sono fondamentali anche per le aziende che si occupano di sviluppo di sistemi di difesa e energie rinnovabili. Da qui la necessità per i paesi più attivi in questi mercati, indipendentemente dal fatto che lo siano per ragioni economiche o strategiche, di garantirsi un approvvigionamento costante di questi metalli.

Se apparentemente il fatto che la presenza di questi metalli non sia concentrata in una sola nazione potrebbe indurre a immaginare che la gestione degli scambi di terre rare non sia poi così problematica, le difficoltà e i costi, sociali ed economici, legati sia alla loro estrazione sia ai processi necessari per separare questi elementi l'uno dall'altro stravolge completamente la situazione.

In generale, questi metalli raramente sono concentrati in giacimenti simili a quelli di tanti altri elementi. Al contrario, ai costi e alla problematicità di una scarsa concentrazione e di una difficoltà oggettiva dei processi di separazione dei metalli, bisogna aggiungere il fatto che da un lato quasi tutti i depositi di terre rare sono caratterizzati da un'elevata presenza di uranio e torio che, se non gestita correttamente, può creare danni permanenti a chi lavora in queste miniere, dall'altro, che la separazione dei metalli ricorre all'utilizzo di acidi altrettanti nocivi.

La maggior parte delle aziende che a partire dagli anni '50 ha iniziato ad occuparsi, in Occidente, dell'estrazione e della raffinazione delle terre rare, negli anni '90 si è ritrovata costretta a chiudere, nonostante le potenzialità di questo business si fossero già rivelate enormi, per problemi legati alla sicurezza dei dipendenti e allo smaltimento dei fluidi di lavorazione. In Oriente, e in particolare in Cina, questo problema ha continuato ad essere considerato come secondario, e anche grazie all'improvvisa uscita di scena dei concorrenti d'oltre oceano che Pechino è riuscita ad aggiudicarsi il monopolio nel settore.

Fino a qualche tempo fa questa situazione ha permesso a tutto il mondo di continuare a importare i metalli di cui avevano bisogno senza dover fare i conti con i dilemmi sanitari ed ecologici di questo business. Poi, però, qualcosa è cambiato. O meglio, Pechino ha deciso di modificare le regole del gioco a suo favore. Introducendo una quota sulle terre rare esportabili e facendone così aumentare drasticamente il prezzo. Ufficialmente, però, Pechino giustificò la quota sostenendo di aver bisogno di allocare una quantità maggiore di metalli alle necessità di sviluppo industriale interne.

Da quel momento, e complice l'importanza che nel frattempo le terre rare avevano assunto nello sviluppo delle nuove tecnologie in ogni settore, l'Occidente, e gli Stati Uniti in particolare, hanno cominciato a sentirsi vulnerabili, prendendo così in considerazione l'ipotesi di riaprire i propri giacimenti, nella convinzione di potervi garantire oggi maggiore sicurezza.  

Eppure, non tutti sono convinti che questa scelta sia sensata. Da un lato c'è un problema di costi, che sarebbero imprevedibili, e presumibilmente altissimi (solo per citare qualche cifra, una piccola compagnia canadese, Elissa Resources, si è buttata in questo business e in tre anni e mezzo di esplorazioni ha speso 1,66 miliardi di dollari, senza ottenere chissà quali risultati). Dall'altro è ancora tutto da vedere se questi metalli siano così indispensabili. Questo perché vengono usati in quantità infinitesimali, e forse sarebbe più saggio investire in procedimenti utili a riciclarli piuttosto che ad estrarli. In più, quando la Cina ha ridotto le esportazioni alcune aziende sono riuscite a sostituirli, e nulla impedisce che la loro importanza diminuisca già in un'ottica di medio-periodo. Infine, c'è chi crede che Pechino non bloccherà mai del tutto il commercio delle terre rare, e se imporrà altre quote basterà smettere di comprare metalli per farne scendere di nuovo il prezzo, proprio come è successo nel 2010. Con buona pace di tutte le implicazioni sociali, ambientali e etiche relative a come la Repubblica popolare "gestisce e controlla" il settore.

 

 

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Claudia Astarita

Amo l'Asia in (quasi) tutte le sue sfaccettature, ecco perché cerco di trascorrerci più tempo possibile. Dopo aver lavorato per anni come ricercatrice a New Delhi e Hong Kong, per qualche anno osserverò l'Oriente dalla quella che è considerata essere la città più vivibile del mondo: Melbourne. Insegno Culture and Business Practice in Asia ad RMIT University,  Asia and the World a The University of Melbourne e mi occupo di India per il Centro Militare di Studi Strategici di Roma. Su Twitter mi trovate a @castaritaHK, via email a astarita@graduate.hku.hk

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