Legge di Stabilità: 5 milioni per lo sviluppo dei Paradisi fiscali
Economia

Legge di Stabilità: 5 milioni per lo sviluppo dei Paradisi fiscali

Nel testo della finanziaria anche i fondi per sostenere sanità e piccole imprese di paesi che ricevono denaro dagli evasori di tutto il mondo. Colpa di accordi sottoscritti più di vent'anni fa

Quasi 5 milioni previsti dalla legge di Stabilità per il 2013, come si usa chiamare da due anni la vecchia Finanziaria, presto voleranno a foraggiare i cosiddetti Paradisi fiscali.

Sembra un paradosso: nell’anno dei sacrifici e della lotta all'evasione per tenere il paese ancorato all’Eurozona ed evitare un finale in stile Grecia, e quindi per non farlo precipitare nella povertà, si scopre che ben 1,8 miliardi verranno spesi per finanziare i paesi poveri, ma anche altri che poveri forse non sono.

Come nel caso di alcuni paesi caraibici che spesso sguazzano proprio coi soldi degli evasori di tutto il mondo: laggiù, infatti, tra palme e spiaggie da sogno, le attività finanziarie non sono tassate.

Tuttavia, l'Italia ha deciso di donare lo stesso qualcosa a queste isolette i cui nomi compaiono non di rado nelle black list delle authority bancarie di tutto il mondo.

Basta andarsi a leggere l'articolo 171 della legge di Stabilità in cui si specificano in dettaglio le quote dei contributi dovuti dall'Italia ai Fondi multilaterali di sviluppo. Ed ecco il conto: oltre un miliardo per la Banca mondiale, 156 milioni per il Fondo globale per l'ambiente, 319,8 milioni per il Fondo africano di sviluppo, 127,6 milioni per il Fondo asiatico di sviluppo e 58 milioni per il Fondo internazionale per lo sviluppo agricolo.

In ultimo, appunto, i 4,75 milioni per il Fondo speciale per lo sviluppo della Banca di Sviluppo dei Caraibi, "relativi alla settima ricostituzione del Fondo" che annovera tra i beneficiari, oltre ad Haiti, l'isola distrutta dal terremoto del 2010, anche noti paradisi fiscali come le Bahamas, le Barbados, le Isole Cayman o le Isole Vergini Britanniche.

Motivo? In una relazione del ministero degli Esteri di due anni fa si spiegava che questa "partecipazione dell’Italia va intesa come un segnale di sostegno ai paesi della regione e, sebbene di modesta entità, presenta un valore simbolico elevato a favore del nuovo corso della Banca".

Soldi che il nostro Paese, dopo un lungo negoziato conclusosi nel 2008, aveva promesso di versare in cambio di una riduzione della propria quota dal 2,72 al 2,61%, ma che nelle finanziarie successive non aveva ancora erogato.

Per la cronaca, al fondo vi partecipano oltre all’Italia anche il Canada, la Germania (dal 1989), il Regno Unito, la Cina e nell’area americana, la Colombia, il Messico e il Venezuela. La Francia, che vi partecipava dal 1984, si è sfilata invece nel 2000 con non poche proteste da parte dei paesi interessati.

Ma cos’è il fondo speciale per lo sviluppo in questione, a che cosa serve e perché l’Italia vi partecipa?

Per capirlo, bisogna risalire 24 anni fa, quando il nostro Paese - l’allora ministro degli Esteri era Giulio Andreotti (Dc) mentre alle finanze, programmazione economica e tesoro sedevano rispettivamente Antonio Gava (Dc), Emilio Colombo (Dc) e Giuliano Amato (Psi) - entrò a far parte della Banca di Sviluppo dei Caraibi (Caribbean Development Bank o in sigla CDB) con una quota azionaria pari al 5,77% del totale (legge 17 maggio 1988, n. 198 ).

Quella decisione allora ci costò oltre 37 miliardi di dollari, di cui 8,2 interamente versati e 29,3 a chiamata.

Una montagna di denaro per partecipare a una istituzione finanziaria, con sede alle Barbados e che impiega 200 tra funzionari e manager, voluta dal Regno Unito e dal Canada e nata il 18 ottobre 1969 grazie a un accordo firmato a Kingosdom "con lo scopo di contribuire alla crescita economica e allo sviluppo dei paesi caraibici e di promuovere tra di loro la cooperazione e l'integrazione economica, rivolgendo un’attenzione particolare ai bisogni dei paesi meno sviluppati della regione".

Questa banca, infatti, tra le altre attività, tramite il Fondo per lo Sviluppo concede prestiti anche a micro e piccole e medie imprese caraibiche o ai governi dell'area per migliorare il settore pubblico e per lanciare programmi sanitari.

Che l’Italia abbia creduto in questo progetto, poi, lo dimostra anche la decisione del 1991, quando il nostro Paese ha sottoscritto una quota  addizionale pari a 12,5 miliardi di dollari, di cui 2,8 subito e i restanti a chiamata, per garantirsi un peso nell'azionariato pari a quello detenuta dalla Germania.

Ma quale è stata la contropartita per tutti questi soldi spesi in oltre venti anni e che continueremo a versare?

Dall'organigramma dell'istituto si scopre che nessun nostro connazionale ad oggi è presente nei vertici apicali, che nel board siede un solo membro italiano non esecutivo e che lo staff conta solo un dipendente italiano: la maggior parte dei funzionari e dei manager è locale.

La relazione del ministero degli Esteri al Parlamento nel 2010 aggiungeva, inoltre, che "sebbene l’interesse delle imprese italiane verso le operazioni della Banca sia in crescita, solo sporadicamente gare internazionali per l’aggiudicazione di progetti finanziati dalla CDB vengono aggiudicate all’Italia". E intanto i cittadini continuano a pagare.

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Massimo Morici

Scrivo su ADVISOR (mensile della consulenza finanziaria), AdvisorOnline.it e Panorama.it. Ho collaborato con il settimanale Panorama Economy (pmi e management) e con l'agenzia di informazione statunitense Platts Oilgram (Gas & Power).

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