The Economist, la Francia e la crisi dell'euro che non risparmia nessuno
Economia

The Economist, la Francia e la crisi dell'euro che non risparmia nessuno

La nostra moneta unica resta debole. Perché gli investitori esteri ancora non si fidano di un mercato che non vede ripresa. Una situazione che non risparmia la Francia come denuncia il settimanale economico

Debole l’attività economica (ha detto il presidente della Bce, Mario Draghi). Debole la crescita (ha sottolineato l'Ocse). Debole la ripresa fino al 2014 (ha ribadito l'agenzia di rating Moody’s). Perché non dovrebbe essere debole anche l’euro? La moneta unica da qualche settimana si è riavvicinata al cambio 1,20 con il dollaro, scendendo ai minimi dopo che in settembre era salito sopra 1,30 e a fine febbraio sino a 1,35, toccando i picchi dell’anno. Forse non potrebbe essere diversamente: rappresenta lo stato di salute dell’eurozona, una grande area produttiva che però non è ancora un mercato unico e non riesce a trovare una via di uscita dalla crisi.

A confermarlo, proprio ieri, i dati Eurostat sul Pil nel terzo trimestre: siamo al secondo rilevamento consecutivo di contrazione (-0,1%). La recessione adesso è ufficiale, e le previsioni per gli ultimi tre mesi del 2012 non sono incoraggianti: andrà ancora peggio.

È da settimane che il clima generale attorno alla moneta unica non è fra i migliori. A influenzarlo hanno contato prima le dichiarazioni del presidente della Bce Mario Draghi, come anche della Commissione UE, che prevedevano tempi duri per l’economia europea. Poi i timori di un possibile contagio della Germania: la crisi si trasmette, secondo una “diagnosi” di Deutsche Bank. E i sintomi sono nei numeri dell’export e dei profitti delle imprese, dato che il 65% degli investimenti esteri finiscono in Europa.

Da ultimo arriva la copertina del The Economist di questa settimana: un fascio di baguette stretto da un nastro tricolore come una carica di tritolo. Titolo: Una bomba a orologeria nel cuore dell’Europa. Dentro, un bel dossier sulla Francia che ha già mandato in bestia Hollande e il suo governo.

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(La copertina del The Economist di questa settimana)

Insomma, in questo quadro l’avversione al rischio dei grandi investitori  internazionali spinge a comprare yen e dollari americani, nonostante le  minacce di Moody’s e Fitch sul debito americano (sarà tagliato il rating  AAA se non verrà superato il “precipizio fiscale” di fine anno) e il  quadro difficile in cui comincia la nuova presidenza Obama. Ma l’economia statunitense da tempo sta dando segnali di ripresa.

Se  si guarda agli andamenti del Pil, consiglia l’economista Lucrezia  Reichlin del Center for Economic Policy Research di Londra, si vede che  dal 2011 è iniziata una divergenza fra Europa e Stati Uniti. Le  recessioni sulle due sponde dell’Oceano non sono più sincronizzate, come  era successo nel 2007 e nel 2008. Gli Usa iniziano la fase di ripresa.  L'Europa ancora no, ma sembra non volersene rendere conto. E soprattutto  non appare intenzionata a dare ai grandi investitori internazionali  messaggi chiari e rassicuranti.

Preferisce continuare in una logorante  sequenza di vertici e in un imbarazzante valzer delle responsabilità,  cercando di volta in volta un capro espiatorio (Grecia, Spagna, Italia,  adesso Francia, a quando la Germania?). "Porre enfasi sulle differenze dei risultati economici dei Paesi della zona euro è una lettura superficiale", scrive la Reichlin sul Corriere della Sera. "O si agisce in modo coordinato per rispondere a questa crisi o avremo di fronte a noi una fase di decadenza economica". E a salvarci non basteranno i vantaggi per l’export portati dall’euro debole.

A questo proposito può essere utile rileggere oggi che cosa scriveva nell’ottobre 2010 l’economista Francesco Giavazzi: il guaio è che l'euro forte risolve il dilemma tedesco ma condanna la periferia dell'Europa. I sub-fornitori della Germania oggi si trovano a Est e sempre meno in Italia. A Varsavia la qualità del lavoro è simile a quella di Modena, ma il costo è una frazione di quello italiano. Sempre meno la crescita tedesca si tramuta in ordini per le nostre aziende. Per recuperare i livelli di produzione pre-crisi (siamo ancora 15% sotto) possiamo contare solo su noi stessi. Poiché da anni i consumi ristagnano, avremmo bisogno, come l'America, di un euro debole. Ma siamo troppo piccoli ed è la Germania a determinare il valore della moneta comune.

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Giovanni Iozzia

Ho lavorato in quotidiani, settimanali e mensili prevalentemente di area economica. Sono stato direttore di Capital (RcsEditore) dal 2002 al 2005, vicedirettore di Chi dal 2005 al 2009 e condirettore di PanoramaEcomomy, il settimanale economico del gruppo Mondadori, dal 2009 al maggio 2012. Attualmente scrivo su Panorama, panorama.it, Libero e Corriere delle Comunicazioni. E rifletto sulle magnifiche sorti progressive del giornalismo e dell’editoria diffusa.  

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