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ANSA/GIUSEPPE LAMI
Economia

Il problema dell'Italia: la distruzione dell'economia reale

Chi ricorda la copertina dell'Economist sul crollo delle nostre banche? Era sbagliata. Perché il guaio (non solo per noi) non è certo quello finanziario

Molti di voi ricorderanno la fotografia della copertina dell’Economist di luglio, con l’autobus coi colori della bandiera italiana sul ciglio del burrone e la scritta “banche”.

- QUI COSA AVEVA SCRITTO L'ECONOMIST

Eppure, i risultati degli stress test successivamente condotti dalle autorità bancarie europee hanno dimostrato, dati alla mano, che proprio le banche italiane sono quelle uscite meglio  - rectius, meno peggio – dal test. E quindi?

E quindi, non posso pensare che i giornalisti di un organo d’informazione tra i più famosi del mondo potessero essere così sprovveduti. Semmai, posso pensare che talvolta l’informazione segua l’orientamento del pensiero dominante in ambito geopolitico e di pensiero economico.

Alla speculazione internazionale fa certamente gola il sistema bancario italiano. Dopo aver perso a prezzi di saldo il nostro tessuto industriale, avendo abbracciato il progetto di una moneta senza stato (detta euro), il prossimo disegno della speculazione internazionale sarà portarsi via quel poco che resta, e cioè il tessuto bancario italiano.

Ma siamo così sicuri che il problema sia italiano e che il ventre molle dell’Europa - come faceva chiaramente pensare l’economist - sia proprio il nostro?

Intanto, quei test nascondono alcuni problemi: il fatto che i bilanci su cui sono calcolati sono statici, ma soprattutto il cuore del problema e cioè le politiche NIRP (Negative Interest Rate Policy) delle banche centrali e il conseguente effetto di crollo di marginalità per le banche. Quindi, si guarda il dito, invece di vedere la luna che questo indica.

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La luna non sono le banche italiane che soffrono, ma la distruzione dell’economia reale a vantaggio di quella finanziaria, effetto calcolato e noto delle politiche neoliberiste. Ma tale effetto non è solo italiano.

L’Irlanda, ad esempio, risulta il Paese chiaramente più esplosivo, con i crediti malati (NPL, Non Performing Loans) nettamente più alti e con i derivati alle stelle. La Raiffeisen Landesbankenha mostra che gli austriaci non stanno benissimo, dato che è risultata la seconda peggior banca in un elenco di 51 (analizzate dagli stress test). Il Banco Popular Espanol risulta la quinta peggior banca, dopo il nostro Monte dei Paschi di Siena, ma anche Banca Santander è risultata ampiamente al di sotto delle aspettative degli analisti.

E vogliamo parlare poi delle Landesbanken della virtuosa Germania, cioè di quel sistema opaco delle Regioni e delle Casse di Risparmio, controllato dalla politica locale e non dagli organi di controllo bancari europei? Vogliamo dire che il leverage ratio di tali banche tedesche oscilla intorno al 3% ed è quindi molto più basso della media europea?

E vogliamo dire che, per converso, la Germania ha indicatori di mancato accesso al credito bassissimo mentre altri Paesi soffrono sempre più il credit crunch?

Ma chi sono quei Paesi?
Non a caso, un paio di Paesi del sud: Italia e Spagna.

Allora forse l’Economist avrebbe dovuto preoccuparsi, invece che dello stato di salute delle banche italiane e delle attese della speculazione internazionale, di dire alla gente che il cuore del problema è proprio lì.

Nel fatto, intendo dire, che abbiamo distrutto l’economia reale con scelte neoliberiste di contrazione della spesa pubblica e di austerità che stanno deprimendo la domanda effettiva e le imprese, soprattutto quelle medio piccole e micro.

Dato che il modello finanziario internazionale spinge le banche verso servizi e investimenti nella finanza e non nella terra o nei bulloni, ne deriva che le banche saranno sempre più deboli, soprattutto nei Paesi con un tessuto produttivo di micro e piccola impresa.

Piuttosto che indicare la debolezza delle banche che maggiormente soffrono tale situazione, sarebbe più logico – non dico più comodo – dire finalmente che quel modello porta a un disastro per tutti.
Non si tratta quindi di tirar fuori un autobus da un burrone, ma di cambiare strada per tutti gli automezzi.

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Valerio Malvezzi