Perche’ Draghi ci aiuta ma le banche no
Economia

Perche’ Draghi ci aiuta ma le banche no

Per fortuna che Mario Draghi c’è. Maestro nell’uso delle parole e dei gesti (un anno fa, esattamente il 26 luglio, ha salvato l’euro dicendo “faremo tutto quel che è necessario, ma proprio tutto”), ha introdotto un’altra novità, annunciando in anticipo …Leggi tutto

Per fortuna che Mario Draghi c’è. Maestro nell’uso delle parole e dei gesti (un anno fa, esattamente il 26 luglio, ha salvato l’euro dicendo “faremo tutto quel che è necessario, ma proprio tutto”), ha introdotto un’altra novità, annunciando in anticipo che i tassi di interesse sarebbero rimasti bassi a lungo (e forse potrebbero scendere ancora). Prima il mantra del banchiere centrale era tenersi le mani libere e non rivelare ai mercati le proprie mosse sul costo del denaro, adesso è vero il contrario. E i mercati hanno celebrato portando a casa dei buoni guadagni. Del resto, anche il nuovo governatore della Banca d’Inghilterra, il canadese Mark Carney, ha confermato la politica dei bassi tassi. La stessa Federal Reserve ha fatto autocritica perché le dichiarazioni di Ben Bernanke sono state interpretate male (o in modo malevolo) dalle borse: nessuna retromarcia fino all’anno prossimo, il dollaro resterà abbondante e a buon mercato. Tutto è bene quel che finisce bene? Non proprio.

La liquidità è servita ad evitare che la recessione diventasse una depressione (con calo generalizzato dei prezzi, dei guadagni, dei redditi) e ha impedito il collasso dell’intero sistema bancario. Quel che sta accadendo in Cina dove la stretta del credito fa diminuire il denaro contante, è uno spettro che evoca le giornate drammatiche del settembre 2008 dopo il crac di Lehman Brothers o del novembre 2011 in Italia. Tuttavia, come ricorda il capo economista dell’Ocse Pier Carlo Padoan (che non è un seguace della ortodossia tedesca), la politica monetaria serve a prender tempo e ad assicurare che non si blocchi la macchina. Poi bisogna mettere in moto la produzione di reddito senza la quale non c’è moneta che tenga. E qui hanno fatto troppo poco i governi, il cui spazio di manovra fiscale è limitato ovunque da un vincolo finanziario (l’eccesso di deficit e di debito pubblico) e in Germania da un vincolo ideologico (la paura dell’inflazione). Ma soprattutto hanno fatto troppo poco le banche.

Un economista americano, Steve Hanke della Johns Hopkins di Baltimora, ha scritto un paper Hot Money, Cold Credit, June 2013 nel quale mostra che il finanziamento dell’economia non si è mosso allo stesso passo dell’espansione monetaria. La curva è addirittura rovesciata nella zona euro dove la moneta stampata dalla Bce è aumentata e il credito delle banche è diminuito dall’estate del 2011. Dunque, la causa principale della recessione non è tanto nelle politiche di austerità (che rappresentano semmai un’aggravante), ma nella stretta. Le banche centrali ci hanno aiutato, le banche no.

Ci sono molte ragioni che non hanno a che fare con l’avarizia o l’avidità dei banchieri: ci vuole più capitale, la recessione ha aumentato le perdite e la quantità di prestiti inesigibili, persiste una sfiducia di fondo che spinge le banche a non prestarsi i quattrini l’una con l’altra e ciò rimanda al clima negativo che ancora domina nella economia globale. E tuttavia le borse continuano a salire, Wall Street è ai massimi, Tokio è ripartita; dunque, sul mercato azionario lo stato d’animo è cambiato. In quello creditizio ancora no. Nonostante l’aiuto di Draghi.

Il presidente della Bce parla di mancata trasmissione della politica monetaria. Lui ha fatto l’idraulico, ma lo stura-lavandini non è bastato. Ci vuole l’acido muriatico. E qualcuno che abbia voglia e lo sappia usare. Possono essere i governi? O una nuova leva di banchieri che guarda ai fondamentali? Una volta Raffaele Mattioli, il mitico capo della Banca Commerciale, disse che il suo ruolo era smistare il traffico, come un vigile: di qua i soldi per le imprese, di qua i titoli di stato, questo per i piccoli, quello per le grandi operazioni strategiche. Se tornasse di nuovo sulla terra, anche lui dovrebbe reinventarsi il mestiere.

 

 

 

 

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Stefano Cingolani

Stefano Cingolani, nasce l'8/12/1949 a Recanati e il borgo selvaggio lo segna per il resto della vita. Emigra a Roma dove studia filosofia ed economia, finendo a fare il giornalista. Esordisce nella stampa comunista, un lungo periodo all'Unità, poi entra nella stampa dei padroni. Al Mondo e al Corriere della Sera per sedici lunghi anni: Milano, New York, capo redattore esteri, corrispondente a Parigi dove fa in tempo a celebrare le magnifiche sorti e progressive dell'anno Duemila.

Con il passaggio del secolo, avendo già cambiato moglie, non gli resta che cambiare lavoro. Si lancia così in avventure senza rete; l'ultima delle quali al Riformista. Collabora regolarmente a Panorama, poi arriva Giuliano Ferrara e comincia la quarta vita professionale con il Foglio. A parte il lavoro, c'è la scrittura. Così, aggiunge ai primi due libri pubblicati ("Le grandi famiglie del capitalismo italiano", nel 1991 e "Guerre di mercato" nel 2001 sempre con Laterza) anche "Bolle, balle e sfere di cristallo" (Bompiani, 2011). Mentre si consuma per un volumetto sulla Fiat (poteva mancare?), arrivano Facebook, @scingolo su Twitter, il blog www.cingolo.it dove ospita opinioni fresche, articoli conservati, analisi ponderate e studi laboriosi, foto, grafici, piaceri e dispiaceri. E non è finita qui.

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