Nessun rinvio, la Ue deve ben altro all’Italia
Economia

Nessun rinvio, la Ue deve ben altro all’Italia

Nessun sollievo dall’Unione europea. “L’Italia non ha chiesto il rinvio”, titola mesto il Corriere della Sera. Ma perché avrebbe dovuto? Siamo sotto la procedura d’infrazione per deficit eccessivo. Se non usciamo da dietro la lavagna, non possiamo pretendere nulla. Fabrizio …Leggi tutto

Nessun sollievo dall’Unione europea. “L’Italia non ha chiesto il rinvio”, titola mesto il Corriere della Sera. Ma perché avrebbe dovuto? Siamo sotto la procedura d’infrazione per deficit eccessivo. Se non usciamo da dietro la lavagna, non possiamo pretendere nulla. Fabrizio Saccomanni, ministro dell’Economia, lo ha già detto urbi et orbi. La gabbia si potrà aprire alla fine del mese, se la Ue sarà convinta che il disavanzo resterà sotto il 3% anche l’anno prossimo. E non farebbe senso nemmeno presentarsi con il cappello in mano appena ottenuto il “perdono”. Insomma, i giornali prima hanno sollevato attese infondate poi si lamentano perché non sono state mantenute.

La fine della “punizione” potrebbe sbloccare investimenti per 14 miliardi congelati soprattutto nei comuni. La richiesta di un rinvio per imitare la Francia e la Spagna solleverebbe di nuovo il muro del sospetto. E siccome tutta la partita si gioca attorno a pochi decimali di punto, non ci vuole niente a dimostrare che i conti non sono affatto in sicurezza e riportare l’Italia nell’angolino. Così funziona il meccanismo. O lo si accetta o lo si cambia. La tattica migliore è accettarlo, ma battersi per cambiarlo. E’ questa la vera sfida per il governo.

Le carte e gli argomenti forti ci sono. Dal 2002 al 2011, tutti hanno sforato i parametri di Maastricht, ma Roma è quella che lo ha fatto meno, subito dopo Berlino. Dal 2006 al 2013 l’Italia ha messo insieme un attivo primario (al netto degli interessi) anno su anno, pari a 15 punti di pil, la Germania 9,5; tutti gli altri sono in disavanzo. Dal 2009 al 2011 il debito pubblico italiano è cresciuto di 4 punti rispetto al pil, quello francese di 6,6, quello tedesco del 6,8; quanto alla Spagna e a più 14,6 (una traiettoria che mette in dubbio tra l’altro i criteri per ottenere un rinvio nel rientro dal disavanzo). Il criterio usato dalla Ue per tenere l’Italia sul banco degli accusati è il calcolo dello stock di debito accumulato, non la sua dinamica. E questo è non solo ingiusto, ma scorretto.

Gli anni che abbiamo scelto come punti di riferimento, mostrano che, sia nel medio periodo, sia prima della crisi, sia in risposta alla recessione, il comportamento italiano è stato “virtuoso”. Ciò vuol dire che, pur a fatica e non quanto sarebbe necessario, la gestione dei conti pubblici in Italia cambia in modo strutturale. E questo è l’argomento principale per pretendere un cambiamento non solo nell’atteggiamento della Ue, ma anche nei suoi criteri di giudizio.

C’è poi la questione di fondo, teorica, ma con forti conseguenze pratiche. Quel che conta per giudicare solida un’azienda è il rapporto tra il debito e il patrimonio, mentre per valutare la sua solvibilità, c’è il rapporto tra dinamica del debito e la sua capacità di pagare gli interessi. Per i paesi, invece, non si considera la relazione tra indebitamento e ricchezza privata. Se prendessimo questa quota, l’Italia con il 20% starebbe meglio addirittura degli Stati Uniti che arrivano a sfiorare il 30%. A Maastricht è prevalso un diverso parametro. Ma era il 1991, e in questi 22 anni è cambiato il mondo, non solo l’Europa. Negli ultimi tempi, la Ue ha aperto le porte alla valutazione di altri criteri, ma senza avere il coraggio di riformare il paradigma di fondo (60% nel rapporto debito-pil e 3% per il deficit annuo) adottato  in seguito a un mercanteggiamento tutto politico, non sulla base della dottrina economica.

Non basta: la Bce ha calcolato la ricchezza privata in rapporto al Pil e ha scoperto che quella italiana è maggiore di quella tedesca. Alcuni studiosi hanno avuto da ridire (la stima non tiene conto delle perdite pesanti avvenute del 2012). Tuttavia, in Germania il dato è stato trasformato in atto di accusa: Siete più ricchi? E allora pagate. Patrimoniale, prelievo sui conti correnti, tagli e tasse. Ebbene, perché mai l’effetto ricchezza deve valere in funzione punitiva e non per dimostrare che l’Italia è solvibile e lo spread con il Bund scorretto e ingannevole?

Saccomanni avrebbe anche altri buoni argomenti. Se non cresciamo il debito non va giù e se non va giù non cresciamo; un circolo vizioso che la Ue non deve alimentare con un atteggiamento che verrebbe considerato, a ragione, puramente punitivo. In conclusione, niente favori, niente proroghe. Piuttosto, il governo Letta faccia valere a Bruxelles le nostre ragioni con una efficacia maggiore rispetto al governo Monti.

 

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Stefano Cingolani

Stefano Cingolani, nasce l'8/12/1949 a Recanati e il borgo selvaggio lo segna per il resto della vita. Emigra a Roma dove studia filosofia ed economia, finendo a fare il giornalista. Esordisce nella stampa comunista, un lungo periodo all'Unità, poi entra nella stampa dei padroni. Al Mondo e al Corriere della Sera per sedici lunghi anni: Milano, New York, capo redattore esteri, corrispondente a Parigi dove fa in tempo a celebrare le magnifiche sorti e progressive dell'anno Duemila.

Con il passaggio del secolo, avendo già cambiato moglie, non gli resta che cambiare lavoro. Si lancia così in avventure senza rete; l'ultima delle quali al Riformista. Collabora regolarmente a Panorama, poi arriva Giuliano Ferrara e comincia la quarta vita professionale con il Foglio. A parte il lavoro, c'è la scrittura. Così, aggiunge ai primi due libri pubblicati ("Le grandi famiglie del capitalismo italiano", nel 1991 e "Guerre di mercato" nel 2001 sempre con Laterza) anche "Bolle, balle e sfere di cristallo" (Bompiani, 2011). Mentre si consuma per un volumetto sulla Fiat (poteva mancare?), arrivano Facebook, @scingolo su Twitter, il blog www.cingolo.it dove ospita opinioni fresche, articoli conservati, analisi ponderate e studi laboriosi, foto, grafici, piaceri e dispiaceri. E non è finita qui.

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