Monti, il Financial Times e il canto di Lorelei
Economia

Monti, il Financial Times e il canto di Lorelei

Wolfgang Münchau attacca e il suo commento viene lanciato via web fin dalla sera prima. Mario Monti replica difendendo il proprio operato e insinuando che il giornalista tedesco ce l’abbia con la Merkel, dunque parla a suocera perché nuora intenda. …Leggi tutto

Wolfgang Münchau attacca e il suo commento viene lanciato via web fin dalla sera prima. Mario Monti replica difendendo il proprio operato e insinuando che il giornalista tedesco ce l’abbia con la Merkel, dunque parla a suocera perché nuora intenda. Ruggini di Bruxelles. Il Financial Times, cerchiobottista, in parte sostiene il suo writer in parte lo stempera in un editoriale nel quale auspica che Monti, insieme al Pd, avvii le riforme che il governo dei tecnici non ha realizzato, a cominciare dal mercato del lavoro.

Il balletto polemico non finisce qui. La posta in gioco, d’altra parte, è ghiotta; sembra un puro scontro egoico, ma dietro c’è la linea Monti, quella del capo del governo tecnico e quella del candidato a un futuro governo politico. La premiata coppia Alesina&Giavazzi (colleghi bocconiani), sul Corriere della Sera pubblica una difesa del professore che in realtà stilla veleno: è una sciocchezza dire che la recessione è provocata dal rigore, ma è vero che il governo italiano avrebbe dovuto tagliare le spese non aumentare le tasse, risparmiando così un bel po’ di prodotto lordo.

L’accusatore/accusato tiene il punto in una intervista al Corriere: “La priorità non doveva essere una correzione fiscale fatta quasi per riflesso istintivo, ma un intervento strutturale mirato” (non è quel che dicono anche Alesina&Giavazzi?). E poi snocciola due cifre micidiali: “Se si potesse dimostrare che l’Italia tornerà a un tasso di crescita del 5% inflazione compresa, un debito del 126% del pil sarebbe sostenibile. Ma se uno prevede una crescita zero, allora sarebbe insolvente”. Ops! Il re è nudo. Monti sostiene che mettere i conti in ordine è la premessa per tornare a crescere. E Münchau porta la stoccata più dura: “Il governo tecnico avrebbe dovuto chiarire subito, in particolare alla Germania, che un aggiustamento asimmetrico degli squilibri, tutto a carico dei paesi debitori, non è né politicamente né economicamente sostenibile”. Arrivando fino al punto di minacciare l’uscita dall’euro, eventualità che Frau Angela teme come la peste.

La colpa non è solo dell’Italia, perché anche la Spagna, soprattutto con Zapatero, ha menato il can per l’aia, e così il Portogallo. Quanto alla Grecia, ha preferito mentire e poi piangere sul latte versato. Insomma, è mancata una risposta politica univoca e seria da parte dei paesi debitori. E la Merkel ha potuto affondare il coltello come fosse nel burro. Monti scrive piccato: “Noi siamo quelli che hanno più smosso le politiche europee insieme a Draghi”. Non ha torto. Ma la questione tedesca posta da Münchau resta centrale. Ci sono due anni di tira e molla sulla Grecia. C’è il bando agli eurobond. C’è l’andirivieni sulla Spagna. C’è il rifiuto di affrontare in modo sistematico le sofferenze delle banche europee (un “nein” fresco fresco, pronunciato proprio ieri alla riunione dei ministri finanziari della Ue).

Le Monde, celebrando il cinquantenario del patto franco-tedesco, pubblica un articolo del suo battagliero editorialista Arnaud Leparmentier scritto per la Südeutsche Zeitung. La Germania di oggi vuole “imporre il suo ordine sull’intera Europa”, scrive. Quello che chiama “egemonismo” si esprime in mille modi: la Volkswagen vuol far chiudere la Peugeot, nell’aeronautica i tedeschi sono meno bravi, ma pretendono la metà dei posti nell’EADS che costruisce l’Airbus. E conclude: “La Germania deve tornare a investire nei paesi latini che si stanno riformando, altrimenti subirà la rivolta dei vicini e il mercato europeo non esisterà più”. E’ quel che Münchau vorrebbe sentir dire dalla bocca di Monti?

Il senatore a vita ha uno stile ben più soft dello scapigliato giornalista francese, ma è ingeneroso negare che in più occasioni ha puntato i piedi. Le cronache lo testimoniano. E tuttavia avrebbe dovuto mettersi la cera negli orecchi per non subire il fascino di Lorelei. Colto com’è ricorda bene la ballata di Heinrich Heine. Bellissima sulla rupe che domina il Reno siede la bionda fanciulla, si pettina i lunghi capelli e intona una melodia che incanta i naviganti: “Nell’esile nave il marinaio/ selvaggia angoscia afferra:/ più non vede gli aguzzi scogli,/ proteso è il suo guardo nell’alto./ Ben so che l’onde alla fine/ vascello e nocchiero ingoiano:/ così del canto della Lorelei/ il fascino arcano s’adempie. (Traduzione di Natalino Sapegno).

 

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Stefano Cingolani

Stefano Cingolani, nasce l'8/12/1949 a Recanati e il borgo selvaggio lo segna per il resto della vita. Emigra a Roma dove studia filosofia ed economia, finendo a fare il giornalista. Esordisce nella stampa comunista, un lungo periodo all'Unità, poi entra nella stampa dei padroni. Al Mondo e al Corriere della Sera per sedici lunghi anni: Milano, New York, capo redattore esteri, corrispondente a Parigi dove fa in tempo a celebrare le magnifiche sorti e progressive dell'anno Duemila.

Con il passaggio del secolo, avendo già cambiato moglie, non gli resta che cambiare lavoro. Si lancia così in avventure senza rete; l'ultima delle quali al Riformista. Collabora regolarmente a Panorama, poi arriva Giuliano Ferrara e comincia la quarta vita professionale con il Foglio. A parte il lavoro, c'è la scrittura. Così, aggiunge ai primi due libri pubblicati ("Le grandi famiglie del capitalismo italiano", nel 1991 e "Guerre di mercato" nel 2001 sempre con Laterza) anche "Bolle, balle e sfere di cristallo" (Bompiani, 2011). Mentre si consuma per un volumetto sulla Fiat (poteva mancare?), arrivano Facebook, @scingolo su Twitter, il blog www.cingolo.it dove ospita opinioni fresche, articoli conservati, analisi ponderate e studi laboriosi, foto, grafici, piaceri e dispiaceri. E non è finita qui.

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