Le banche? Come i capponi di Renzo
Economia

Le banche? Come i capponi di Renzo

Le banche europee stanno meglio di quelle americane. Le banche italiane sono più solide di quelle europee. Quante volte abbiamo sentito i due mantra recitati con sussiego? Ma, se cade il velo, la verità appare del tutto diversa. Lo dimostra …Leggi tutto

Le banche europee stanno meglio di quelle americane. Le banche italiane sono più solide di quelle europee. Quante volte abbiamo sentito i due mantra recitati con sussiego? Ma, se cade il velo, la verità appare del tutto diversa. Lo dimostra anche lo scontro nella Ue sulla proposta di unificare la vigilanza nelle mani della Bce. Ancora una volta si dividono i paesi latini e quelli del nord guidati dalla Germania, con la Gran Bretagna arroccata in difesa della City. Lo schiamazzo a Bruxelles, in realtà, nasconde un sistema bancario debole, carico di titoli ad alto rischio e di sofferenze, con un patrimonio ancora troppo esile rispetto all’impiego del risparmio raccolto attraverso i depositanti o sul mercato.

Sostiene uno dei maggiori esperti, Marco Onado, docente alla Bocconi: “Le banche europee sono ben lungi dall’aver risolto i loro problemi, non sono ancora pronte per essere sottoposte alle regole più severe che sono necessarie per rendere il sistema finanziario più sicuro, ma intanto continuano a litigare come i capponi di Renzo, spalleggiate dai rispettivi governi. L’enorme massa di liquidità fornita dalle banche centrali non si traduce infatti in prestiti. Rischiamo così di veder proiettare sugli schermi europei il film dell’orrore di un credit crunch durato oltre un decennio, che i giapponesi sono stati costretti a vedere a partire dalla fine degli anni Novanta”.

Il rapporto sulla stabilità finanziaria pubblicato dalla Banca d’Italiaconferma la restrizione in atto nell’offerta di credito, mettendo per di più in evidenza la forbice con i periferici di Eurolandia, che vedono una dinamica dei prestiti molto più contenuta rispetto alla media o addirittura negativa. La Banca d’Italia si dichiara tranquilla, ma un grafico del rapporto mette in evidenza che, fatti pari a cento i corsi di borsa ad agosto 2008 (cioè prima del ciclone Lehman), i corsi azionari delle banche italiane sono circa la metà della media europea e un terzo di quella americana, sottolinea Onado su lavoce.info/articoli/pagina1003437. Differenze così forti si notano anche se guardiamo al rapporto fra capitalizzazione di borsa e valore contabile (il cosiddetto price-book value) che è generalmente molto basso per le nostre banche.

I crediti dubbi sul totale dei prestiti alla clientela nei due maggiori istituti italiani, Unicredit e Intesa, sono pari al 12% il livello più alto d’Europa, sottolinea il rapporto di Mediobanca pubblicato a novembre R&S-Relazione+tabelle giugno 2012. E’ vero che le banche straniere sono meno prudenti, ma in Francia la quota è 4,9, in UK il 5,7, in Spagna il 4,3, in Germania il 3,8 appena. Se poi calcoliamo i crediti dubbi in rapporto al patrimonio netto, ebbene nel giugno di quest’anno, per Intesa erano il 69% e per Unicredit l’84, veri record negativi del campione che comprende i principali gruppi bancari del continente. Dunque, la recessione colpisce duramente. Le due banche italiane hanno in pancia 124 miliardi di titoli sovrani (121 italiani), nelle maggiori banche spagnole analizzate dalla Mediobanca ce ne sono per 77 miliardi, in quelle francesi 41, nelle tedesche 14. Alcune stanno peggio, ovviamente: per Intesa  l’esposizione è superiore al 150% del patrimonio netto, per Unicredit e BBVa il 65, per Santander il 60%.  Le banche italiane hanno una leva finanziaria nettamente inferiore rispetto alle concorrenti, e questo le rende meno esposte ai venti del mercato, ma sono molto più appesantite in termini di crediti a rischio e di titoli pubblici nazionali.

Ha ragione l’Eba, l’autorità bancaria europea, a chiedere una ricapitalizzazione in tempi rapidi? L’Assobancaria si è battuta per rinviare. Certo i tempi non sono favorevoli, ma il rapporto di Mediobanca conferma la fragilità dell’intero sistema. Alcune banche hanno addirittura aumentato la leva finanziaria allo scopo di tirar su un po’ di utili con il trading.  Il risultato è che quelle meno capitalizzate sono anche le più esposte ai rischi del mercato. Dunque, rafforzare il loro patrimonio è fondamentale se si vuole davvero metterle in sicurezza. L’obiezione di fondo è che così facendo  si finisce per aumentare la stretta creditizia: cioè le banche, invece di riattivare il circuito del credito, tengono per sé i quattrini raccolti tra i depositanti, sul mercato e soprattutto dalla banca centrale,.

Il paragone con gli Stati Uniti  smentisce il luogo comune consolatorio diffuso in Europa e in Italia. Non solo negli States tornano a far profitti (alcune sono addirittura ai livelli del 2006), ma prestano di nuovo quattrini. Molto dipende dalla Federal Reserve, sia chiaro, perché la la banca centrale prima ha comperato mille miliardi di titoli tossici, ora si fa consegnare titoli di stato per centinaia di miliardi e acquista anche mutui cartolarizzati. Insomma, il grande spazzino è all’opera. Lo stesso non si può dire in Europa: anche se la Bce ha aperto un credito illimitato all’un per cento, la debolezza degli attivi e la bassa capitalizzazione lascia il sistema bancario appeso a un filo.

E’ vero, se non riparte l’economia, prevarrà la guerra di trincea. Ma c’è anche un’altra via d’uscita, o meglio una scorciatoia all’insegna del motto mors tua vita mea.  In sostanza, si tratta di mangiarsi le banche più deboli e assorbire la loro clientela. E’ successo anche in Italia, e succederà ancora se una istituzione storica come il Monte dei Paschi di Siena rischia di dover essere salvato dallo stato. Non è detto che il gigantismo alla lunga funzioni. Il caso della Unicredit lo dimostra: avendo acquisito realtà molto eterogenee e non del tutto sane  (è il caso di Capitalia, ma anche della tedesca Hypovereinsbank), ha fatto la fine del ghiottone che non riesce a digerire i bocconi troppo indigesti.

Se la miglior difesa è l’attacco, allora si cresce per conquistare nuove fette di mercato e gettare la polvere sotto un tappeto più grande. Dietro la resistenza alla centralizzazione della vigilanza bancaria, così, c’è anche la guerra per banche su scala continentale. E le nuove regole verranno scritte, ancora una volta, dai vincitori.

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Stefano Cingolani

Stefano Cingolani, nasce l'8/12/1949 a Recanati e il borgo selvaggio lo segna per il resto della vita. Emigra a Roma dove studia filosofia ed economia, finendo a fare il giornalista. Esordisce nella stampa comunista, un lungo periodo all'Unità, poi entra nella stampa dei padroni. Al Mondo e al Corriere della Sera per sedici lunghi anni: Milano, New York, capo redattore esteri, corrispondente a Parigi dove fa in tempo a celebrare le magnifiche sorti e progressive dell'anno Duemila.

Con il passaggio del secolo, avendo già cambiato moglie, non gli resta che cambiare lavoro. Si lancia così in avventure senza rete; l'ultima delle quali al Riformista. Collabora regolarmente a Panorama, poi arriva Giuliano Ferrara e comincia la quarta vita professionale con il Foglio. A parte il lavoro, c'è la scrittura. Così, aggiunge ai primi due libri pubblicati ("Le grandi famiglie del capitalismo italiano", nel 1991 e "Guerre di mercato" nel 2001 sempre con Laterza) anche "Bolle, balle e sfere di cristallo" (Bompiani, 2011). Mentre si consuma per un volumetto sulla Fiat (poteva mancare?), arrivano Facebook, @scingolo su Twitter, il blog www.cingolo.it dove ospita opinioni fresche, articoli conservati, analisi ponderate e studi laboriosi, foto, grafici, piaceri e dispiaceri. E non è finita qui.

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