Il rating? Solo un consiglio per gli acquisti
Economia

Il rating? Solo un consiglio per gli acquisti

Standard & Poor’s teme un’altra tempesta perfetta. Non adesso, magari l’anno prossimo. Certo, gli ingredienti ci sono tutti: ingente fabbisogno di capitali sui mercati finanziari, riduzione del fardello di crediti a rischio nelle banche, crisi del debito in Europa e …Leggi tutto

Standard & Poor’s teme un’altra tempesta perfetta. Non adesso, magari l’anno prossimo. Certo, gli ingredienti ci sono tutti: ingente fabbisogno di capitali sui mercati finanziari, riduzione del fardello di crediti a rischio nelle banche, crisi del debito in Europa e negli Stati Uniti. Secondo S&P’s, le società avranno bisogno di 30 triliardi di dollari (un triliardo=mille miliardi) per rifinanziare i bond in scadenza e i prestiti erogati nel periodo pre crisi (le società europee contano per il 30%), cui si aggiungeranno altri 13-16 di nuovi capitali per finanziare la crescita. Un conto da 46 triliardi nel triennio, che rischia di sbilanciare ulteriormente gli equilibri economici mondiali. Agli Stati Uniti, infatti, serviranno 8,6 triliardi di rifinanziamenti, mentre nell’economia reale verranno investiti poco meno di tre triliardi, così come in Europa dove per la crescita verranno spesi meno di 2,3 triliardi. Ancora peggio il Giappone: 5,5 triliardi per i debiti in scadenza e neppure uno per l’economia. In Cina il debito in scadenza è fermo a 7,5 triliardi, ma il bisogno per la crescita è enorme: serviranno tra i 7,7 e i 9,7 trilioni per soddisfare i bisogno di Pechino.

Di fronte a questo scenario da circo della catastrofe, che cosa fa S&P’s? Ebbene si appresta a far scendere il giudizio di affidabilità assegnato alle società, alle banche e agli stati che hanno bisogno di quattrini. Gli economisti lo chiamano comportamento pro ciclico, in altre parole è un circolo vizioso che si autoalimenta. C’è una logica in questa follia? Standard & Poor’s non è una eccezione, al contrario. Così fanno le tre sorelle e le altre sorelline che si spartiscono la torta. Sono ben 14 i paesi europei a rischio di essere retrocessi in questo 2013. E gli Stati Uniti hanno stanno per superare il tetto di 16 triliardi di dollari per l’indebitamento pubblico, fissato dal Congresso. In rapporto al prodotto lordo, siamo sempre su livelli accettabili, circa il 75 per cento e l’economia Usa cresce di oltre due punti in termini reali. Ma gli americani non ragionano con i parametri di Maastricht costruiti sui libri e sui documenti degli eurocrati. Per loro conta la quantità. E sul mercato dei titoli pubblici, i bond a stelle e strisce sono in cima alla lista. Del resto, in Europa è la Germania a emettere più titoli di stato, essendo l’economia più grande e dovendo anch’essa far conto sul mercato per finanziarsi. Di qui lo spiazzamento che i Bund provocano rispetto ai Btp e ai Bonos.

La concorrenza, dunque, sarà durissima e il rating, nato come criterio di valutazione oggettivo e indipendente, è sempre più un fattore di confusione se non di  speculazione finanziaria. L’arbitro s’è fatto giocatore e non da adesso. Il cambiamento risale agli anni ’80 e va di pari passo con il gbig bang finanziario. Lasciata libera di navigare in tutto il mondo, la moneta bollente ha avuto sempre più bisogno di fari per orientarsi. L’importanza delle agenzie è cresciuta e nello stesso tempo esse sono diventate fonte di business e di potere.

Fino alla grande crisi del 2008 nessuno aveva mai osato mettere in discussione il loro giudizio. Anche quando sembrava assurdo a chi solo avesse voluto applicare il buon senso. Nel momento di chiedere il ricorso al Chapter 11 della legge sui fallimenti, Lehman Brothers aveva un merito di credito di A+ secondo Fitch, A per Standard & Poor’s, A2 per Moody’s. Queste valutazioni erano migliori di molti stati sovrani. Alla fine del 2007 e nei quattro anni precedenti, il merito di credito delle società americane era pari ad AA, inferiore solo a quella del governo degli Stati Uniti, della Germania e di pochi altri paesi. In base ai dati pubblicati da S&P’s, relativi al periodo 1981-2004, la probabilità che un titolo di debito con rating A vada in default senza passaggi intermedi è pari a 0,04 per cento. In altre parole, è un evento rarissimo che dovrebbe accadere non più di una volta ogni 2.500 anni. Ebbene, abbiamo visto che cos’è successo. Eppure, nonostante le proposte di riforma negli Stati Uniti e nell’Unione europea, poco o nulla è cambiato. E la fame di capitali ha riportato la bacchetta magica nelle mani degli stregoni.

Il mercato del rating è diventato un duopolio pressoché perfetto, tale da scoraggiare ogni altro imprenditore dotato dei sacri animal spirits. Con il 79% diviso tra i due colossi Standard & Poor’s e Moody’s, che cosa resta se non le briciole? Nessuna agenzia opera direttamente sul mercato, ma tutte lo influenzano, eccome. I loro profitti sono aumentati, Moody’s è andata in borsa e ha visto il valore del suo titolo motiplicarsi per sei e i suoi guadagni per 900. Nel capitale sono entrati grandi investitori istituzionali, ma di gran lunga il più importante è Warren Buffett: possiede oltre il 19% attraverso la sua corazzata, Berkshire Hathaway, che ha in portafoglio i pacchetti principali di American Express, Coca Cola, Gillette, The Washington Post. Quanto a S&P’sd è controllata dal grande gruppo editoriale McGraw-Hill.

Jonathan Macey, professore a Yale, alla Cornell, alla Bocconi, grande esperto di diritto commerciale, davanti alla commissione del Senato americano sul crack Enron e sulle responsabilità delle agenzie di rating, ha sparato a zero contro le tre Parche che tessono i fili del mercato finanziario: “Oggi come oggi, non offrono alcuna informazione davvero valida sull’affidabilità delle società e sarebbe meglio che le autorità regolatorie abbandonassero l’uso del rating ovunque sia possibile”. Il mercato s’è fatto troppo complesso per essere racchiuso nella tradizionale griglia di lettere e simboli, e l’intreccio di conflitti di interesse troppo ampio e diffuso. E’ il 2002.

Dopo la grande crisi, il Senato Usa e la Sec hanno messo in luce tutti i canali attraverso i quali il parere delle agenzie influenza i mercati, “dall’accesso al capitale alla struttura delle transazioni, all’abilità in forme particolari di investimenti”. La commissione d’inchiesta del Congresso, ha puntato il dito su alcune falle sistemiche: 1) le agenzie si fidano troppo spesso delle informazioni che l’impresa fornisce loro senza verifiche autonome, facendosi infinocchiare come nel caso Enron; 2) i conflitti di interesse sono provocati dalla circostanza che a pagare per il rating è la società che emette il titolo; 3) è sempre maggiore il peso dei servizi di consulenza alle imprese; 4) la trasparenza scarseggia; 5) troppi gli ostacoli ai nuovi arrivati.

Anche la Commissione europea ha fatto il volto dell’arme, chiedendo addirittura che si stabilisca la responsabilità civile per le agenzie. Una decisione affidata a ciascun stato membro (e questo è già il primo punto debole), basata su un giudizio di intenzionalità dell’errore (e della colpa) difficile da provare. Secondo l’economista Giovanni Ferri dell’università di Bari, bisognerebbe impedire alle agenzie di emettere sentenze in presenza di mercati “troppo esuberanti” o per prodotti finanziari troppo nuovi, non testati e spesso facilmente tracciabili (come la maggior parte dei derivati). Irischi che determinano le crisi sistemiche sono per loro natura sempre nuovi  - sottolinea Ferri – Ciò vale per i titoli di finanza strutturata così come per i debiti sovrani, per la crisi delle tigri asiatiche nel 1997 o i titoli internet nel 2001. Quei rischi non erano prevedibili e quindi non si poteva chiedere alle agenzie di ammonire gli investitori ex ante; quello che però si poteva chiedere loro era di non contribuire ad ampliare la bolla speculativa che si era creata o ad accrescere la volatilità quando era scoppiata”.

Mettere un limite è la strada regolatoria. Quella contraria è moltiplicare le agenzie, riducendo il duopolio e aumentando la concorrenza. Più giudizi, più scelte, più alternative per i risparmiatori. La via liberista. Se per la prima, la questione aperta è chi controlla i controllori, per la seconda è chi impedisce che l’agenzia cinese o quella europea non parteggino per i loro paesi come è già avvenuto prima della crisi con le agenzie americane. Dunque, occorre anche in questo caso un sorvegliante che aiuti a orientarsi nella giungla dei rating. Il controllor dei controllori da un lato e il nocchiero dall’altro finiscono per assumere un potere eccessivo e condizionante. Una terza via potrebbe essere il benign neglect. Cioè teniamoci le A e le B, ma consideriamole un consiglio per gli acquisti, uno tra tanti, poco più di una pubblicità (e, dunque, attenti che non sia ingannevole), non il giudizio del dio mercato.

 

 

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Stefano Cingolani

Stefano Cingolani, nasce l'8/12/1949 a Recanati e il borgo selvaggio lo segna per il resto della vita. Emigra a Roma dove studia filosofia ed economia, finendo a fare il giornalista. Esordisce nella stampa comunista, un lungo periodo all'Unità, poi entra nella stampa dei padroni. Al Mondo e al Corriere della Sera per sedici lunghi anni: Milano, New York, capo redattore esteri, corrispondente a Parigi dove fa in tempo a celebrare le magnifiche sorti e progressive dell'anno Duemila.

Con il passaggio del secolo, avendo già cambiato moglie, non gli resta che cambiare lavoro. Si lancia così in avventure senza rete; l'ultima delle quali al Riformista. Collabora regolarmente a Panorama, poi arriva Giuliano Ferrara e comincia la quarta vita professionale con il Foglio. A parte il lavoro, c'è la scrittura. Così, aggiunge ai primi due libri pubblicati ("Le grandi famiglie del capitalismo italiano", nel 1991 e "Guerre di mercato" nel 2001 sempre con Laterza) anche "Bolle, balle e sfere di cristallo" (Bompiani, 2011). Mentre si consuma per un volumetto sulla Fiat (poteva mancare?), arrivano Facebook, @scingolo su Twitter, il blog www.cingolo.it dove ospita opinioni fresche, articoli conservati, analisi ponderate e studi laboriosi, foto, grafici, piaceri e dispiaceri. E non è finita qui.

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