Il budget day di sir Grilli. E c’è poco da ridere
Economia

Il budget day di sir Grilli. E c’è poco da ridere

E va bene, non è la valigetta del Cancelliere dello Scacchiere, anche se ce lo saremmo aspettato da questi tecnici oxoniensi. Ogni anno il ministro del Tesoro britannico si presenta prima a Buckingham Palace poi a Westminster con una ventiquattrore …Leggi tutto

E va bene, non è la valigetta del Cancelliere dello Scacchiere, anche se ce lo saremmo aspettato da questi tecnici oxoniensi. Ogni anno il ministro del Tesoro britannico si presenta prima a Buckingham Palace poi a Westminster con una ventiquattrore rossa e, ottenuto il via libera formale dalla Corona, chiede alla Camera dei Comuni di approvare o respingere quel che c’è dentro. Non è che la sudate carte del bilancio non siano segnate da contrattazioni più o meno a cielo aperto. No taxation without representation significa che un po’ di mercato delle vacche è il pepe della democrazia. Ma una cosa è tener conto degli interessi costituiti sia pur legittimi, tutt’altro è sottostare agli emendamenti dell’ultimo minuto, inseriti surrettiziamente mentre l’aula è avvolta dal manto di Morfeo e gli ultimi, eroici parlamentari, stremati e confusi, approverebbero la qualunque purché sia finita.

No, non è il Budget Day quel che ci ha regalato Vittorio Grilli nella sua prima (e ultima?) legge finanziaria (ci ostiniamo a chiamarla così, perché la stabilità non è di questo mondo). E non assomiglia nemmeno a quel che aveva concepito nel 1979 Beniamino Andreatta, testa d’uovo morotea: aveva studiato, lui pure, a Oxford e aveva concepito l’idea di presentare un solo articolo in parlamento, quello che fissa il saldo netto da finanziarie, cioè il limite annuo all’indebitamento pubblico. Per tutto il resto, avrebbe deciso il governo, assumendosene le responsabilità.

No, niente di tutto questo. Ma quel che è uscito in queste ore da palazzo Madama e da Montecitorio, non è nemmeno la ridicola rappresentazione che ne hanno fatto i teorici della casta e le penne vagabonde. Val la pena, allora, prendere sul serio quel lungo elenco di decisioni che incideranno sulla nostra vita, anzi sulla nostra pelle. E non è una metafora.

Cominciamo dall’Imu la vexata quaestio. Dal 2013 diventa municipale di nome e di fatto. Come voleva la Lega (incredibile dictu). Lo stato centrale terrà l’imposta sui capannoni e gli opifici. I sindaci prenderanno il resto. E in più avranno la Tares che sostituisce Tarsu e Tia, insieme al compito di riformare il catasto (campa cavallo) che intanto è stato rivalutato del 60%. Gli amministratori locali hanno già applicato il massimo dell’imposta, eppure continuano a lamentarsi, gridano che dovranno spegnere i riscaldamenti agli asili nido. E questo lo chiamano federalismo.

L’Iva sale al 22 per cento dal primo luglio 2013. Niente taglio dell’Irpef ai redditi più bassi. E’ stato tutto un bluff. O forse la buona intenzione c’era, ma è durata solo pochi giorni, giusto il tempo di qualche titolo sui giornali. Il capitolo entrate s’arricchisce di tasse sulle videolotterie, mentre parte la gara per aprire mille nuove sale da poker. Perché stupirsi, era così anche durante la Grande Crisi, ricordate i film americani sugli anni ’30? E il più divertente di tutti è “La stangata” con Paul Newman e Robert Redford. Arriva anche la Tobin tax bifronte: 0,1% per le operazioni sui mercati ufficiali e 0,2% per quelle fuori banco. Per i derivati, farina del diavolo, fino a un massimo di 200 euro (addirittura!). Ma il fatto è che, se si aggiunge ai prelievi del decreto Salva Italia, vien fuori una vera patrimonialina finanziaria  (e nemmeno troppo piccola).

Non manca qualche contentino, sia chiaro: i risultati della lotta all’evasione alimentano il fondo taglia tasse; realizzabilità: bassa, commenta Il Sole 24 Ore nella sua chiarissima disanima della finanziaria. Vengono azzerati i vecchi debiti con il fisco, sotto i duemila euro (wow!), parte l’anno prossimo un fondo per agevolare le piccole aziende (realizzabilità: bassa); gli statali precari verranno prorogati fino al 31 luglio (efficacia: scarsa); la cassa integrazione in deroga avrà altri 1,7 miliardi per tamponare diecimila esodati (efficacia: scarsa); la riforma delle province è congelata e agli enti locali arrivano altri quattrini (efficacia: bassa); c’è una dote di 2,1 miliardi per i salari di produttività, mentre per pagare tasse e contributi si potranno usare i mutui garantiti dallo stato (qui il Sole è possibilista, noi ci permettiamo di obiettare, anche se queste misure fanno piacere alla Confindustria).

L’elenco magari è un po’ noioso. Ma questa finanziaria non è un pot-pourri di bazzecole buone a intingere di colore le penne dei giornalisti. E’ l’ultimo triste esempio di una lunga serie di manovre correttive: quindici ne sono state calcolate negli ultimi vent’anni. Possiamo andare indietro nel tempo e nulla cambia. Dal 1963 quando si manifesta la prima seria crisi nella bilancia dei pagamenti, corretta dal duo Carli-Colombo (Guido Carli alla Banca d’Italia a tirare i freni della moneta ed Emilio Colombo al Tesoro a stringere le viti del bilancio pubblico) ogni anno vengono annunciate misure seguite per lo più da correzioni e ogni anno crescono le entrate fiscali, mentre le uscite dell’amministrazione centrale e periferica corrono ancora più veloci. Una spirale che ha portato il debito pubblico a raddoppiare dal 60 al 120 per cento del prodotto lordo (con un intervallo tra il 1994 e il 2001, troppo breve e non sufficiente).

I due picchi, per la quantità inizialmente coinvolta, sono quelli del governo Amato nel settembre 1992 e dei governi Berlusconi-Monti nel 2011. In mezzo, ci sono prelievi che nel loro insieme hanno superato un quarto del reddito prodotto ogni anno. Ora il parlamento ha approvato il pareggio del bilancio per il 2013 che sta per arrivare. Intanto, il debito viaggia a quota 126 rispetto al pil, ben oltre duemila miliardi di euro. E lo chiamano rigore.

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Stefano Cingolani

Stefano Cingolani, nasce l'8/12/1949 a Recanati e il borgo selvaggio lo segna per il resto della vita. Emigra a Roma dove studia filosofia ed economia, finendo a fare il giornalista. Esordisce nella stampa comunista, un lungo periodo all'Unità, poi entra nella stampa dei padroni. Al Mondo e al Corriere della Sera per sedici lunghi anni: Milano, New York, capo redattore esteri, corrispondente a Parigi dove fa in tempo a celebrare le magnifiche sorti e progressive dell'anno Duemila.

Con il passaggio del secolo, avendo già cambiato moglie, non gli resta che cambiare lavoro. Si lancia così in avventure senza rete; l'ultima delle quali al Riformista. Collabora regolarmente a Panorama, poi arriva Giuliano Ferrara e comincia la quarta vita professionale con il Foglio. A parte il lavoro, c'è la scrittura. Così, aggiunge ai primi due libri pubblicati ("Le grandi famiglie del capitalismo italiano", nel 1991 e "Guerre di mercato" nel 2001 sempre con Laterza) anche "Bolle, balle e sfere di cristallo" (Bompiani, 2011). Mentre si consuma per un volumetto sulla Fiat (poteva mancare?), arrivano Facebook, @scingolo su Twitter, il blog www.cingolo.it dove ospita opinioni fresche, articoli conservati, analisi ponderate e studi laboriosi, foto, grafici, piaceri e dispiaceri. E non è finita qui.

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