Bundesbank e Italia, una sciocca arroganza
Economia

Bundesbank e Italia, una sciocca arroganza

Sul piatto del sempre più squilibrato rapporto tra Italia e Germania, la Bundesbank ha aggiunto un macigno pesante e odioso nella forma e nella sostanza. Jens Weidmann, presidente della banca centrale tedesca, in una intervista al settimanale Focus ha lanciato …Leggi tutto

Sul piatto del sempre più squilibrato rapporto tra Italia e Germania, la Bundesbank ha aggiunto un macigno pesante e odioso nella forma e nella sostanza. Jens Weidmann, presidente della banca centrale tedesca, in una intervista al settimanale Focus ha lanciato un vero e proprio ukaz (sì, vale proprio la forma russa di ordine dello zar): “Se in Italia protagonisti importanti della politica discutono di una marcia indietro sulle riforme o addirittura sull’uscita dell’Italia dall’euro e come conseguenza aumenta lo spread dei titoli italiani, allora ciò non può e non deve essere un motivo per interventi della banca centrale”.  Ogni Paese è responsabile delle sue azioni, per questo “una completa garanzia o un finanziamento della banca centrale sono per questo motivo escluse in base ai trattati”.

La forma, innanzitutto: Weidmann ha parlato ex cathedra al posto di Mario Draghi. Si può dire che abbia parlato per conto di Draghi? Non sembra. Il presidente della Bce non è tipo da delegare. Nell’estate del 2011 firmò (e molti dicono scrisse) la lettera inviata insieme a Jean-Claude Trichet al governo Berlusconi che di fatto ha commissariato la politica economica italiana. Le scelte successive non sono che l’applicazione (sia pur parziale) di quel decalogo. E’ vero che la Bundesbank è l’azionista numero uno, in quanto rappresenta il paese più ricco e popoloso, ma non è la Bce. Né può vantarsi di essere la sentinella della stabilità, perché la sua politica monetaria è protagonista del crescente squilibrio tra la Germania e il resto d’Europa (Francia compresa). E qui arriviamo ai contenuti di quel diktat.

Weidmann ha ragione di preoccuparsi dell’ondata anti-europeista (oltre che anti-euro) che ha trovato eco nel risultato elettorale italiano. Ma dovrebbe chiedersi il perché. Non c’è dubbio, infatti, che ha contribuito in modo determinante la miopia e l’arroganza della Bundesbank e la oscillante debolezza del governo Merkel. Prima i clamorosi e colpevoli errori nel salvataggio della Grecia. Poi l’imposizione a Roma di una cura greca. Ora la Kanzlerin ammette che con un disavanzo pubblico inferiore al 3 per cento, l’Italia ha spazio per qualche investimento pubblico. Ma anche un anno fa era così. Dunque, è un riconoscimento tardivo e inadeguato. Perché l’Italia ha tutto il diritto, con un surplus al netto degli interessi pari a due punti di pil, di chiedere un rinvio al pareggio del bilancio, tenendo conto che la Germania lo raggiungerà solo nel 2015 (e la Francia, forse, nel 2017).

Weidmann, dunque, con quell’aria da pretino saccente, dovrebbe biasimare se stesso e  Frau Angela della quale è stato a lungo consigliere (a proposito di indipendenza, sulla quale la Buba impartisce lezioni e che viene rivendicata anche da Weidmann nella intervista a Focus, non è il massimo di eleganza che venga nominato banchiere centrale chi fino al giorno prima lavorava nella Cancelleria).

Non basta. Entriamo nel merito della sua argomentazione, perché la nostra non è una piccata invettiva nazionalista. L’Italia deve portare avanti le riforme strutturali non per compiacere i tedeschi ma per i propri interessi, per aumentare la competitività e il benessere dei propri abitanti. Quel che sostiene Weidmann, invece, è contraddittorio con quel che dimostra il Fmi nel suo studio sull’Italia. Infatti, il Fondo mette in evidenza che le riforme porteranno beneficio al prodotto lordo a cominciare dal terzo anno, nel frattempo, occorre adottare politiche di sostegno alla domanda interna, altrimenti le stesse riforme falliranno.

Proprio quella domanda interna, che la Germania ha preteso restasse piatta in Italia e nel resto d’Europa, per paura dell’inflazione, ha provocato il  collasso dell’industria e del prodotto. Una domanda per consumi depressa dalle troppe tasse, e una domanda per investimenti soffocata dalla paura del domani, dall’angoscia per una politica che sembra avviarsi verso l’anarchia, ma anche dalla sfiducia nella capacità dell’Unione europea di aiutare, sostenere e rilanciare la sua quarta economia e uno dei paesi fondatori. Weidmann, se ne è ancora capace, chieda alla sua Angela di ascoltare i consigli del Fmi e di applicare i comunicati del G20 dove è scritto nero su bianco che il cieco rigorismo tedesco ha provocato l’attuale depressione europea.

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Stefano Cingolani

Stefano Cingolani, nasce l'8/12/1949 a Recanati e il borgo selvaggio lo segna per il resto della vita. Emigra a Roma dove studia filosofia ed economia, finendo a fare il giornalista. Esordisce nella stampa comunista, un lungo periodo all'Unità, poi entra nella stampa dei padroni. Al Mondo e al Corriere della Sera per sedici lunghi anni: Milano, New York, capo redattore esteri, corrispondente a Parigi dove fa in tempo a celebrare le magnifiche sorti e progressive dell'anno Duemila.

Con il passaggio del secolo, avendo già cambiato moglie, non gli resta che cambiare lavoro. Si lancia così in avventure senza rete; l'ultima delle quali al Riformista. Collabora regolarmente a Panorama, poi arriva Giuliano Ferrara e comincia la quarta vita professionale con il Foglio. A parte il lavoro, c'è la scrittura. Così, aggiunge ai primi due libri pubblicati ("Le grandi famiglie del capitalismo italiano", nel 1991 e "Guerre di mercato" nel 2001 sempre con Laterza) anche "Bolle, balle e sfere di cristallo" (Bompiani, 2011). Mentre si consuma per un volumetto sulla Fiat (poteva mancare?), arrivano Facebook, @scingolo su Twitter, il blog www.cingolo.it dove ospita opinioni fresche, articoli conservati, analisi ponderate e studi laboriosi, foto, grafici, piaceri e dispiaceri. E non è finita qui.

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