Bacchette magiche contro Voldemort spread
Economia

Bacchette magiche contro Voldemort spread

Lo spread sale: è colpa (nell’ordine) di Mariano Rajoy, Silvio Berlusconi e Giuseppe Mussari. Il giorno dopo lo spread scende, ma Rajoy non si è dimesso, Berlusconi continua a promettere e con lui anche Bersani, Monti, Grillo. Mentre lo scandalo …Leggi tutto

Lo spread sale: è colpa (nell’ordine) di Mariano Rajoy, Silvio Berlusconi e Giuseppe Mussari. Il giorno dopo lo spread scende, ma Rajoy non si è dimesso, Berlusconi continua a promettere e con lui anche Bersani, Monti, Grillo. Mentre lo scandalo Mps è lungi dall’essere chiarito. C’è una logica in questa follia? Sì, c’è e si chiama speculazione. Cosa vuol dire, che prima le cinque grandi banche d’affari del mondo si mettono d’accordo per dare addosso all’Italia e alla Spagna, poi fanno esattamente il contrario? I trader si pagano la settimana bianca a Cortina o a Sankt Moritz e via andare. Nessuno lo può escludere. Così fan tutti, persino nella placida Siena come mostra proprio il Montepaschi.

Se però vogliamo cercare spiegazioni meno epifenomeniche, dobbiamo tornare ai fondamentali. Ci siamo illusi che babbo Natale avesse portato in dono la fine dell’instabilità. Invece non è così. La tregua è durata un paio di mesi, adesso si ricomincia. Perché? Perché poco o nulla è cambiato in Europa e in alcuni paesi chiave.

E’ vero per la Spagna, che non ha ancora smaltito la bolla immobiliare (non parliamo poi dei salvataggi bancari). E’ vero per l’Italia dove il pareggio di bilancio si allontana per colpa di una recessione peggiore del previsto e, di conseguenza, s’avvicina il rischio che il prossimo governo debba varare un’altra stangata. L’ex ministro dell’Economia Giulio Tremonti, mette già in giro la cifra: 14 miliardi. Se vince Berlusconi e rispetta il suo nuovo contratto con gli italiani, sono altri 8 miliardi (4 per restituire l’Imu e altrettanti per abolirla). Ma anche Monti e Bersani hanno promesso interventi consistenti. Come recuperare il gettito? Con tasse, gabelle, accise (che comunque aumentano la pressione fiscale complessiva) o con nuovi tagli (che deprimono la congiuntura).

L’Italia è caduta in un circolo vizioso: per ridurre il debito è stata tirata la cinghia stressando al massimo la politica di bilancio, così si è contratta la domanda pubblica mentre scendeva la domanda privata. Il deleveraging (riduzione cioè dell’indebitamento) da parte dello stato, delle famiglie e delle imprese, procede in sintonia provocando un effetto valanga. Sia chiaro, il debito pubblico va tagliato, ma la stretta andava compensata dal lato degli investimenti, soprattutto privati. Invece, ciò non è avvenuto.

I Keynesiani addossano tutte le colpe all’austerità e chiedono ai governi spese che essi non sono in grado di fare: mancano le risorse e mancano pure le idee. I liberisti vogliono rimettere in moto gli spiriti animali con meno imposte. E tuttavia questi spiriti languono: dal 2008 in poi i valori delle imprese sono crollati in media del 50-60 per cento, molte sono state costrette a chiudere, altre hanno cambiato ragione sociale, si sono rifugiate nel mercato protetto dalle tariffe pubbliche. Se avessero a disposizione più quattrini li investirebbero in prodotti innovativi e competitivi? Forse, ma nessuno lo può dire.

Dunque, si diffonde una sensazione di impotenza che alimenta la gara alla ricetta miracolosa, a chi la spara più grossa. Il baratro è profondo e il ponte tibetano, stretto e oscillante, non consente balzi in avanti. Bisogna procedere passo dopo passo e in fila indiana. Italia e Spagna debbono finire la cura; la Germania deve allentare le redini; la Francia che lamenta (giustamente) gli effetti di un euro troppo alto, deve battersi per svalutarlo (la resistenza di Berlino sarà feroce, ma Parigi è l’unica che può farlo perché ha lo standing da subpotenza, anche militare, e in questioni valutarie questo conta);  i grandi gruppi industriali debbono seguire l’esempio americano, riportando in casa gli investimenti di qualità e i prodotti ad alto valore aggiunto; le banche debbono liberarsi dei titoli marci e tornare a prestare quattrini: qui un aiuto fondamentale dovrà venire ancora una volta dalla Bce seguendo le orme della Fed. Insomma, nessuno ha la bacchetta magica, ma tante bacchette insieme possono sconfiggere Lord Voldemort.

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Stefano Cingolani

Stefano Cingolani, nasce l'8/12/1949 a Recanati e il borgo selvaggio lo segna per il resto della vita. Emigra a Roma dove studia filosofia ed economia, finendo a fare il giornalista. Esordisce nella stampa comunista, un lungo periodo all'Unità, poi entra nella stampa dei padroni. Al Mondo e al Corriere della Sera per sedici lunghi anni: Milano, New York, capo redattore esteri, corrispondente a Parigi dove fa in tempo a celebrare le magnifiche sorti e progressive dell'anno Duemila.

Con il passaggio del secolo, avendo già cambiato moglie, non gli resta che cambiare lavoro. Si lancia così in avventure senza rete; l'ultima delle quali al Riformista. Collabora regolarmente a Panorama, poi arriva Giuliano Ferrara e comincia la quarta vita professionale con il Foglio. A parte il lavoro, c'è la scrittura. Così, aggiunge ai primi due libri pubblicati ("Le grandi famiglie del capitalismo italiano", nel 1991 e "Guerre di mercato" nel 2001 sempre con Laterza) anche "Bolle, balle e sfere di cristallo" (Bompiani, 2011). Mentre si consuma per un volumetto sulla Fiat (poteva mancare?), arrivano Facebook, @scingolo su Twitter, il blog www.cingolo.it dove ospita opinioni fresche, articoli conservati, analisi ponderate e studi laboriosi, foto, grafici, piaceri e dispiaceri. E non è finita qui.

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