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Economia

Cina, perché la ripresa dipende da fiducia e ottimismo

Svalutazione, privatizzazioni, consumi interni, investimenti. Ecco come sta cambiando la superpotenza d'Oriente

Le ultime notizie parlano dell'ennesima chiusura in ribasso per le borse cinesi: -3,52 per cento a Shanghai e -4,98 a Shenzhen. Si dice sia la conseguenza sia delle nuove stime sull'andamento economico generale della Repubblica popolare che, ancora una volta, sarebbero negative, sia della scelta del governo di chiudere i conti legati all'acquisto di azioni a credito con la pratica del margin financing, il modello poco sostenibile spesso indicato come causa principale delle prime flessioni dei mercati asiatici. Dal momento che l'economia cinese non si può ignorare perché a prescindere da quanto rapidamente continuerà a crescere di certo è destinata a rimanere a lungo uno dei mercati più appetibili del pianeta, vale la pena dare un'occiata a dati e previsioni per capire cosa potrebbe davvero succedere.  

Dati, tendenze e fiducia

Le ultime statistiche indicano una produzione industriale cresciuta "appena" del 6,1 per cento nel mese di agosto, lo 0,3 per cento in meno rispetto alle aspettative. E ancora vendite e consumi stanno crescendo meno del previsto, e lo stesso vale sia per le importazioni che per le esportazioni. Male anche per gli investimenti, perché le incertezze del mercato cinese avrebbe indotto molti operatori internazionali a posticipare il potenziamento della propria posizione in Oriente. Ma il vero problema è che questa crisi di fiducia generalizzata sulle potenzialità della Cina sta creando un circolo vizioso che contribuisce a peggiorare la situazione. E' stato ripetuto per anni che Pechino non avrebbe potuto mantenere una crescita a due cifre all'infinito e che una ristrutturazione sarebbe prima o poi diventata necessaria. E ora che i nodi sono arrivati al pettine, invece di avere paura sarebbe meglio affrontare la situazione in maniera pragmatica, altrimenti rischiamo di eserne tutti travolti. Del resto, di certo non è nell'interesse del Partito lasciare che il gigante asiatico vada alla deriva. 

Yuan svalutato

Una delle tante preoccupazioni che arrivano dalla Cina è legato alla recente decisione di Pechino di svalutare la moneta nazionaledel 4,65 per cento. Un scelta fatta per due ragioni molto diverse: rilanciare la crescita rendendo più competitive le esportazioni, e aiutare lo yuan a diventare più reattivo alle oscillazioni dei mercati internazionali, come il Fondo Monetario Internazionale chiede da tempo. Prima di lanciare l'allarme svalutazione immaginando una Cina pronta a innescare una guerra di valute e a invadere il mondo con le sue produzioni, quindi, sarebbe stato più opportuno fare qualche calcolo per capire il reale impatto di questa mossa.

Gli effetti della svalutazione

Il Centro Studi sulla Cina Contemporanea dell'Università di Melbourne ha fatto proprio questo, arrivando alla conclusione che molto dfficilmente la svalutazione sarebbe andata oltre il 5 per cento, e certamente non avrebbe oltrepassato il 10. Il motivo? Dati alla mano, oltrepassare questo limite avrebbe svantaggiato la Cina tanto quanto il resto del mondo. Con una svalutazione del 5 per cento Pechino può migliorare l'attuale equilibrio sulla bilancia commerciale esportando di più, ma anche gli Stati Uniti (questo il mercato di riferimento preso in considerazione dagli studiosi di Melbourne) hanno molto poco da perdere. Lo stesso vale per occupazone, consumi interni e Pil. Quindi una riduzione del 5 per cento porta benefici medi per la Cina e perdite minime per l'America. Risultato misto con un svalutazione del 10 per cento, con la Cina che guadagna solo in parte visto che rendere meno conveniente produrre all'interno del paese ha come unica conseguenza quella di indurre i suoi investitori tradizionali a cercare destinazioni alternative. Uno scenario che diventa inevitabile per gli stessi industriali cinesi a fronte di una svalutazione del 20 per cento, che quindi smette di essere realistica. 

I segnali di ripresa

Si parla tanto dei segnali di ripresa che non ci sono, o che sono troppo lenti o comunque inferiori alle aspettative. Ma il problema è che una ristrutturazione di un paese come la Cina non può avvenire in 24 oe, e nemmeno in 24 mesi, se proprio vogliamo essere realistici. 

Le "città fantasma" sono state costruite nella speranza di favorire urbanizzazione e aumento dei consumi interni, ma questo risultato potrà essere ottenuto solo dopo aver creato nuovi posti di lavoro, quindi spostando industrie. E anche per questo ci vuole tempo. Che poi ne siano state costruite troppe, che ci siano problemi enormi di sprechi e corruzione è un altro discorso. Il punto è: la Cina sta andando nella direzione giusta? La ristrutturazione è inquadrata in un sistema sostenibile che, prima o poi, permetterà al paese di raggiungere i risultati sperati?

Mercato interno

Forse sì, anche se si sa che i grandi cambiamenti comportano anche molti rishi. E non sempre possono guadagnarci tutti. Ad esempio, sono pochi gli operatori internazionali che hanno capito che l'imperativo del "consumo interno" creerà vantaggi soprattutto per le aziende cinesi, che sono già presenti in tante delle regioni continentali che stanno crescendo. Se le città piccole e medie contribuiscono per il 57 per cento al Pil nazionale, è evidente che non possono più essere snobbate. Ma raggiungerle con le strategie giuste, per gli stranieri, non è così facile. 

Privatizzazioni

Altro annuncio a sorpresa è stato quello della prossima "privatizzazione parziale" delle aziende di stato. Tante sono inefficienti, ma per mille motivi diversi il Partito non può permettersi di smantellarle. Anzichè continuare a moltiplicare le strutture (come è stato fatto fino ad oggi), quindi affiancando il nuovo al vecchio senza ripartire in maniera chiara le competenze, ora si tenta la strada della ristrutturazione interna. Che secondo il Partito dovrebbe dare qualche risultato già entro il 2020. Ecco, il 2020. Fra oltre quattro anni. Un limite che riporta alle considerazioni precedenti. Vale a dire alla consapevolezza che per cambiare una nazione così grande e complessa c'è bisogno di tempo. Ma anche di ottimismo. Perché se continueremo a guardare alle statistiche mensili con apprensione e paura, allora faremmo bene anche a smettere di immaginare qualcosa di meglio per gli anni a venire. Perché non è certo con il pessimismo che salveremo la Cina, e nemmeno noi stessi. 

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Claudia Astarita

Amo l'Asia in (quasi) tutte le sue sfaccettature, ecco perché cerco di trascorrerci più tempo possibile. Dopo aver lavorato per anni come ricercatrice a New Delhi e Hong Kong, per qualche anno osserverò l'Oriente dalla quella che è considerata essere la città più vivibile del mondo: Melbourne. Insegno Culture and Business Practice in Asia ad RMIT University,  Asia and the World a The University of Melbourne e mi occupo di India per il Centro Militare di Studi Strategici di Roma. Su Twitter mi trovate a @castaritaHK, via email a astarita@graduate.hku.hk

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