Vinitaly chiude: tutte le sfide per il mercato italiano
Economia

Vinitaly chiude: tutte le sfide per il mercato italiano

Siamo leader nell'export ma quasi assenti dal maggiore mercato potenziale del mondo: la Cina. Perché ancora non facciamo né sistema né ecommerce

Il vino italiano, che ha appena lasciato Verona per il suo più importante appuntamento annuale, il Vinitaly, merita un brindisi ma senza lasciare che l’alcool impedisca di vedere le sfide, se non le difficoltà, che lo attendono dietro l’angolo. E visto che il sindaco-rottamatore Matteo Renzi in una sua apparizione in Fiera ha detto che “il vino può essere la metafora dell’Italia”, vale la pena capire che cosa c’è in bottiglia.

Siamo i primi esportatori, davanti a Spagna e Francia: più di un bicchiere su 5 bevuti nel mondo è made in Italy. Il settore non sembra conoscere la parola crisi. Nel 2012, dice l’annuale rapporto Mediobanca, sono cresciuti gli investimenti tecnici (+10% dopo il crollo del 2011) e quelli pubblicitari (+6,5%), che in Italia però sono calati pesantemente (-14%). Se le cose vanno bene, quindi, è perché il vino italiano piace all’estero: il fatturato 2012 è cresciuto di quasi il 7% solo grazie alle esportazioni. Che hanno permesso di ottenere un altro risultato assolutamente straordinario di questi tempi: l’incremento dell’occupazione (+2,6% secondo un sondaggio WineNews/Vinitaly).

Il trend positivo continua nel primo trimestre del 2013. “È un buon momento”, conferma Domenico Zonin, neopresidente dell’Unione Italiana Vini (500 aziende che rappresentano il 70% dell’export). “Mentre in Italia e in Europa i consumi sono stabili o in calo, nel resto del mondo crescono. Negli Stati Uniti, che è il primo mercato, siamo l’importatore numero uno, grazie al lavoro che da oltre due decenni stanno facendo i nostri produttori, che hanno preso la strada della qualità e adesso raccolgono i frutti. Sta anche pagando la strategia di legare i prodotti ai territori e un’altra nostra caratteristica: se vinciamo su Australia, Sudafrica e altri Paesi produttori emergenti è perché abbiamo la fortuna di poter contare su una maggiore varietà di offerta. Abbiamo talmente tanti vitigni che non rischiamo di annoiare mai”. Ma dobbiamo convincere consumatori sempre più lontani. Fa notare Nomisma, che ha appena lanciato un WineMonitor: nel 1995 l’Unione Europea rappresentava il 70% del valore delle nostre esportazioni, oggi si ferma al 52% perché aumenta il peso di nuovi mercati (Cina, Russia, America Latina).

Quello del “beverage” è l’unico settore alimentare a non conoscere difficoltà tanto che poche settimane fa l’agenzia di rating Moody’s ha cambiato l’outlook da stabile a positivo, prevedendo che i profitti quest’anno e il prossimo cresceranno mediamente del 6%. Ciò significa, però, che la concorrenza è dura e mantenere il primato non è scontato. “Da adesso in poi bisogna imparare a lavorare insieme”, è l’invito di Zonin. “Non è detto che quello che ha funzionato in passato funzioni ancora”. Il primo problema è riuscire a “fare squadra”. E non è facile, perché il vantaggio della varietà, che ci ha reso attraenti, adesso rischia di diventare un handicap.

A fare vino in Italia sono oltre 380mila aziende ma solo un centinaio hanno un fatturato superiore ai 25 milioni. Le stime più accreditate parlano di oltre 1 milione di lavoratori per un giro di affari di circa 10 miliardi, di cui la metà realizzato all’estero. Insomma, la solita storia di troppe nanoimprese che fanno fatica ad affrontare i mercati internazionali. Se non si fa sistema, non si va lontano. E lo dimostra la quasi assenza del vino italiano in Cina: solo il 5% delle importazioni in quello che appare destinato a diventare il primo mercato al mondo. “Si può affrontare solo se si ha la forza che dà un sistema”, dice Zonin, “ da soli non è possibile. Una voce non riesce a farsi ascoltare da un pubblico fatto da centinaia di milioni di consumatori. Farsi conoscere è impossibile e se non ti fai conoscere come pensi di poter vendere?”. Che ci sia molto da fare lo conferma un piccolo episodio raccontato da Ferruccio De Bortoli a cui un gruppo di operatori cinesi al Vinitaly ha chiesto se il Corriere della Sera sia una wine company.

Mercati enormi come la Cina si possono raggiungere e conquistare con i nuovi canali digitali. E qui c’è l’altra debolezza della nostra industria: l’ecommerce è ancora quasi inesistente (si stimano vendite per circa 30 milioni). A volerla vedere positivamente, si povrebbe dire che basta poco per fare meglio. Ma molto dipenderà da come si farà. Inutile continuare a vantare aziende che arrivano a realizzare anche il 96% del fatturato all’estero se sono casi isolati e se manca un “sistema Paese”. “Ma lo sa che mi è capitato di incontrare persone che a Shangai mi chiedevano se anche in Italia si fa vino?”, racconta Zonin. “Ma capisci perché succede quando vedi che davanti a un albergo un cartellone annuncia: 1° degustazione di vini italiani, 57° di vini francesi”. E aggiunge: “Cile, Argentina, Nuova Zelanda hanno uffici di rappresentanza e  piani di marketing a lungo termine. Hanno una strategia e fanno sistema”. Senza eccessivi carichi fiscali e asfissianti complicazioni burocratiche. E' questa la sfida del vino made in Italy nei prossimi anni. E non solo del vino. Ed ecco spiegata la metafora suggerita da Matteo Renzi.

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Giovanni Iozzia

Ho lavorato in quotidiani, settimanali e mensili prevalentemente di area economica. Sono stato direttore di Capital (RcsEditore) dal 2002 al 2005, vicedirettore di Chi dal 2005 al 2009 e condirettore di PanoramaEcomomy, il settimanale economico del gruppo Mondadori, dal 2009 al maggio 2012. Attualmente scrivo su Panorama, panorama.it, Libero e Corriere delle Comunicazioni. E rifletto sulle magnifiche sorti progressive del giornalismo e dell’editoria diffusa.  

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