Start-up, fare soldi con la tua idea
Economia

Start-up, fare soldi con la tua idea

Un decreto del governo. Decine di incubatori. E un’infinità di corsi. Mai momento è stato più favorevole per creare una start-up in Italia. Guida completa al fenomeno

È partito con un finanziamento di 50 mila euro e una buona idea sviluppata al Politecnico di Milano: applicare un complesso algoritmo alla gestione delle flotte aziendali. Meno di 2 anni dopo Antonio Perini, 37 anni, ha venduto la sua start-up, Viamente, a un cliente statunitense per oltre 4,5 milioni di dollari.

Quello che fino a ieri pareva un fenomeno circoscritto a pochi cervelloni potrebbe diventare il volano dell’economia italiana. Come Perini, numerosi giovani si stanno mettendo in gioco scommettendo sulle start-up, le società innovative che rappresentano una speranza per la salvezza del nostro Paese. «Il tuo momento start-up è arrivato» recitava a maggio la copertina del mensile Wired Uk: «Non c’è mai stato un momento migliore per diventare imprenditore nel Regno Unito». E oggi anche Panorama può dire ai suoi lettori: «Il tuo momento start-up è arrivato». Perché non c’è mai stata occasione migliore in Italia per diventare imprenditore.

Dal programma di Radio Bocconi «Start Up the Volume», che dà visibilità ai giovani imprenditori, alla nuova impresa Musicraiser, che raccoglie fondi per musicisti, dalle aziende per giovani agricoltori ideate dal ministro Mario Catania al progetto calabrese Eco-4Cloud, che riduce di un terzo i consumi dei data center, le start-up sono in pieno boom. Per non parlare del proliferare di eventi, incubatori, convegni, iniziative di crowdfunding e fondi, sponsorizzati da colossi del calibro di Telecom, Vodafone, Enel, Wind, Microsoft, Cisco, Intesa Sanpaolo...

È scoppiata la startupmania. Ma non è una semplice moda: qualcosa sta cambiando davvero. E non solo perché sta diventando cool seguire le orme di Kevin Systrom, il cofondatore del social network della fotografia Instagram, venduta ad aprile a Facebook per 1 miliardo di dollari. La novità sta nel fatto che, se fino a ieri il nostro Paese era poco attraente per le aziende innovative, dal 18 ottobre scorso è diventato più ospitale. Il merito va soprattutto a un decreto voluto dal ministro dello Sviluppo economico Corrado Passera: il Decreto crescita 2.0. Dopo avere raccolto le più brillanti sollecitazioni degli addetti ai lavori, attraverso il lavoro di una squadra coordinata dal consigliere del ministro Alessandro Fusacchia, il governo ha introdotto un corposo pacchetto di sgravi fiscali, misure amministrative, norme giuslavoristiche e incentivi. Obiettivo: fare diventare l’Italia la prossima «nazione start-up».

«L’operazione rappresenta una scommessa per l’economia del Paese» dice il fondatore della HFarm Riccardo Donadon, massima autorità in materia in Italia. Già, perché investire sulle start-up significa investire sull’intera economia nazionale. A esserne convinto è anche il Consiglio dell’Unione Europea, che ha raccomandato al governo italiano di incentivare l’avvio di start-up per combattere la disoccupazione giovanile. Raccomandazione necessaria, visto che si stima che i fondi finora investiti in start-up italiane siano solo 80 milioni di euro (un settimo rispetto ai finanziamenti per le imprese innovative messi sul piatto in Germania). E pensare che sostenendo le imprese innovative si farebbe crescere il pil. Andrea Rangone, docente del Politecnico di Milano, ha fatto due calcoli: «Investendo 300 milioni di euro nella fase embrionale delle start-up, in 10 anni il prodotto interno lordo italiano potrebbe crescere di oltre 3 miliardi».

Il modello di riferimento è Israele, il paese con la più alta densità di start-up tecnologiche al mondo. Le aziende innovative israeliane attraggono più fondi di venture capital pro capite di tutti i paesi del mondo: 2,5 volte più degli Stati Uniti, 30 volte più dell’Europa, 300 volte più della Cina. Tanto che Tel Aviv vanta più società quotate al Nasdaq (l’indice tecnologico di New York) di tutte quelle europee, giapponesi, coreane, indiane e cinesi messe insieme.

Ma che cosa sono di preciso le start-up? Il termine indica un’impresa innovativa appena costituita, potenzialmente di grande successo, che vende beni o servizi. Il decreto Sviluppo introduce invece il concetto di «start-up innovativa». In breve, si tratta di un’azienda che fa innovazione tecnologica, ha meno di 4 anni di vita e un fatturato sotto i 5 milioni di euro. Per stimolare l’innovazione, il governo ha previsto sgravi e incentivi. Ma pure chi non ha un’idea innovativa può crearsi un business online di successo.

Quali sono i passi da seguire per trasformare un’idea brillante in una start-up innovativa? Con il supporto dei più autorevoli addetti ai lavori, Panorama ha preparato una guida per aspiranti start-upper. «Il primo aspetto da tenere presente è che, essendo innovative, queste nuove imprese non possono guardare solo al mercato italiano» spiega Mario Mariani, uno dei fondatori della Tiscali a capo dell’incubatore cagliaritano The Net Value (il cui sito è solo in inglese). «Non a caso le chiamano multinazionali tascabili. Si tratta di aziende che magari testano il prodotto o servizio sul mercato italiano, però ragionano da subito in un’ottica globale».

Subito dopo è necessario mettere insieme una squadra. «Gli investitori puntano quasi più sul team che sull’idea» spiega Dario Giudici, cofondatore di Siamosoci.it, piattaforma che mette in contatto start-up non ancora costituite con potenziali investitori. «Perché, come si dice nel mondo internet, se l’idea vale 10 l’esecuzione vale 100». Il passo successivo, nel caso di società digitali, è arrivare a un test di mercato, provando il servizio in un contesto circoscritto.

Subito dopo viene una parte complessa: verificare se il modello di business sta in piedi attraverso un business plan. Un business plan vero e proprio richiede competenze da master in business administration (analisi strategica, diritto societario, marketing, finanza, economia aziendale e internazionale...). Per questo, di norma, si ha bisogno di aiuto esterno. E qui entra in scena l’incubatore, detto anche acceleratore: la struttura che accelera e razionalizza il processo di creazione di imprese innovative.

Esistono tre modelli di incubatori: profit, non-profit e universitari. Il primo incubatore nato in Italia nel 2005 è HFarm. Dal suo quartier generale bucolico di Cà Tron, un’azienda agricola di 1.500 ettari a Roncade (Tv) affacciata sulla laguna di Venezia dove lavorano 250 persone, HFarm opera a livello internazionale, con uffici a Londra, Seattle e Mumbai. «Siamo un acceleratore nel senso che facciamo crescere rapidamente un’idea. Se funziona o no lo verifichiamo in fretta» sintetizza Donadon, che finora ha contribuito a lanciare 34 start-up. «Il nostro obiettivo è aiutare i giovani con una buona idea a trasformarla in un’impresa. Per farlo, dal gennaio 2013 accoglieremo 20 team, con un programma di accelerazione intensivo della durata di 3 mesi. Primo incubatore in Europa, metteremo a disposizione anche vitto e alloggio, oltre ai tradizionali servizi, come mentoring, networking e spazio di lavoro».

Al momento in Italia operano una cinquantina di incubatori, ma stanno crescendo in misura esponenziale. Non tutti, però, hanno l’expertise e il rigore di HFarm o di The Value Net: il rischio che qualcuno approfitti del boom delle start-up è reale. Per questo il decreto Sviluppo 2.0 prevede l’istituzione di un registro degli incubatori certificati, che dovrebbe essere operativo a gennaio. Nell’attesa, Panorama ha selezionato i più attivi incubatori presenti  sul mercato. Ma trovare un incubatore disposto a sostenere la propria start-up non è facile: in media alla HFarm arrivano oltre 700 proposte all’anno, al massimo 10 vengono finanziate. «Se si riceve un no, ma si crede davvero nella propria idea» consiglia Donadon «bisogna insistere e provare con altri incubatori».

Una volta capito che il progetto sta in piedi, si può costituire l’impresa. E qui arriva il bello: la ricerca dei finanziatori. «Sostanzialmente sono di due tipi: business angel e venture capital» spiega Andrea Di Camillo, responsabile fondi e investimenti di Principia Sgr. «I business angels sono investitori privati che finanziano in prima persona la fase iniziale («seed», seminare in inglese) in cambio di quote, diventando soci di minoranza. I venture capital sono invece società di risparmio gestito che raccolgono capitali sul mercato e li investono nelle startup già avviate, per finanziarne la crescita».

Con i primi finanziamenti del seed l’aspirante start-upper diventa imprenditore e può lanciare il suo prodotto (o servizio) sul mercato. «Dopo un periodo fra i 6 mesi e i 2 anni è in grado di valutare l’effettiva validità della sua idea» spiega Mario Mariani. «E se passa anche questo test l’impresa è pronta per cercare un finanziatore di peso per sostenere la crescita: il famoso venture capital. A questo punto lo start-upper è finalmente in grado di strutturare l’azienda».

Un percorso a ostacoli, che in pochi riescono a portare a termine: negli Stati Uniti i venture capital dicono che, se vanno bene due start-up su 10, si è stati bravissimi. «Ma il fallimento non è negativo» precisa Dario Giudici. «Avere fallito significa avere tratto esperienza dagli errori commessi». Fa insomma parte del rischio imprenditoriale. «Ed è proprio per cambiare il paradigma del fallimento che il decreto Sviluppo ha voluto semplificare le procedure liquidatorie delle start-up che non decollano» spiega il consigliere del ministro Passera, Fusacchia. «Dopo 12 mesi il nome dell’imprenditore che ha chiuso la società viene cancellato dal registro delle imprese, in modo che non gli rimanga addosso lo stigma di chi ha fallito
nell’attività imprenditoriale, al quale nessuno concederà più un soldo».

Innovazione tecnologica, crescita del pil, cambiamenti culturali... Il boom delle start-up sembra prefigurare una vera e propria rivoluzione. Ma riuscirà mai l’Italia a passare dalle parole ai fatti? Una dose di realismo arriva da Vincenzo Russi, il direttore generale del centro d’eccellenza del Politecnico di Milano Cefriel che, avendo promosso il progetto Nextion (un incubatore sulle colline abruzzesi di Lanciano), sta saggiando le difficoltà che comporta questo mutamento di paradigma. «Per prima cosa vorrei dire che era ora. Tutte queste iniziative contribuiscono a far crescere la cultura dell’innovazione e dell’imprenditorialità, di cui il nostro Paese ha estremo bisogno» spiega Russi, che insegna al Master del Politecnico. «Purtroppo esistono ancora tante realtà che non comprendono appieno la novità e non sanno come muoversi in scenari che mutano di continuo e con grande rapidità. Per sperimentare la nuova cultura dell’innovazione le imprese in particolare dovrebbero scommettere sulle start-up». La rivoluzione è iniziata, ma la strada da percorrere è ancora lunga.

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Elisabetta Burba