Parigi: un lavoro chiamato Uber
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Economia

Parigi: un lavoro chiamato Uber

Così in Francia un disoccupato può cambiare rapidamente vita. In Italia non è ancora possibile: ecco perché

Cognomi stranieri che suonano come handicap, titoli di studio degni ma giudicati senza peso, una lunga litania di «no» e di porte chiuse in faccia. Capita troppo spesso a chi vive nella sterminata periferia parigina, dove la disoccupazione supera il 50 per cento e cercare lavoro significa improvvisare o subire una discriminazione. Dove un giro in macchina in un giorno feriale qualunque mostra gruppetti di ragazzi che si drogano sotto il sole, altri che vagano senza una meta apparente tra un ristorante libanese, uno «franco-orientale», uno dall’insegna che sembra una presa in giro o sbandiera solo una speranza: «Liberté».

In questa periferia è arrivato anche Uber, il colosso americano condensato in un'applicazione che permette di chiedere un passaggio con lo smartphone e pagarlo tramite carta di credito. E ha finito per dare un'opportunità a chi, finora, ne ha avute poche: organizzando, con una rete di partner, corsi gratuiti e consulenze per ottenere la licenza e diventare autisti (in Francia è sufficiente passare un esame), assicurare tariffe agevolate o prestiti per noleggiare una vettura e saldare le rate dell'assicurazione.

"Non badiamo al colore della pelle o alla religione. Chiediamo affidabilità. In cambio, offriamo un'occupazione accessibile, con pagamenti settimanali puntuali" spiega Guido Gabrielli, 30 anni, romano cresciuto a Milano, tra i primi dieci dipendenti a essere assunti dalla compagnia nell'animata sede parigina e oggi general manager di UberEats, il servizio che consegna cibo a domicilio tramite la app generando altri posti di lavoro. In Francia gli autisti affiliati a Uber sono almeno 21 mila, ma secondo un rapporto del Parlamento ne servirebbero 68 mila soltanto nella capitale per portarla ai livelli di Londra. Nonostante le proteste plateali dei tassisti d'Oltralpe, che per fermare Uber hanno bloccato persino gli aeroporti.

"La domanda di mobilità è abbondante. Coinvolgere le banlieue per soddisfarla asseconda un'esigenza del mercato e, in parallelo, genera reddito avviando un riscatto sociale" aggiunge Gabrielli. Complice il passaparola, sono circa 2 mila le persone che ogni settimana visitano il Partner support center di Uber: si tratta di uno sportello che chiarisce i dubbi di quanti vorrebbero diventare autisti del servizio, mettendoli in contatto con chi può aiutarli. In un giorno, volendo, si può dare una svolta alla propria vita: al bancone c'è chi vende le auto, chi rilascia l'assicurazione e anche chi aiuta a fare le pratiche per la licenza. A tenere in piedi tutto il meccanismo provvedono i giudizi dei passeggeri al termine delle singole corse: chi si comporta male è individuato dal sistema ed è allontanato dalla piattaforma. Da qui l'incentivo a tenere l'auto pulita, guidare in modo impeccabile, assecondarei clienti bizzosi. Con il beneficio di guadagnare cifre interessanti e ritrovare la serenità perduta.

Oltralpe gli utenti che hanno fatto almeno un viaggio con Uber negli ultimi tre mesi sono stati 1,25 milioni, in Italia appena 70 mila, e un migliaio gli autisti. Poco più di un ventesimo rispetto a quelli che si muovono tra Parigi e le altre otto città in cui il servizio è attivo. Un dislivello legato soprattutto all'annosa questione delle licenze. "Quelle francesi si creano in un mercato liberalizzato da anni, aperto alla concorrenza. In Italia, invece, sono limitate da un'autorità e soggette a un tetto massimo stabilito dal singolo Comune" sintetizza Carlo Tursi, general manager di Uber Italia. Fenomeno che scatena la compravendita di licenze tra privati in un mercato parallelo che vale decine di migliaia di euro ad autorizzazione. Cifre per pochi, non per chi è alla disperata caccia di un impiego. "La barriera all'ingresso" continua Tursi "risulta enorme ed è un peccato visto l'elevato tasso di disoccupazione in un Paese come il nostro, trai primi al mondo per possesso di auto e per flussi turistici".

Il modello sperimentato nelle banlieue potrebbe funzionare anche da noi? "Non con il quadro normativo attuale" risponde Tursi. "C'è bisogno di un'apertura che probabilmente avverrà in modo graduale. Ncc, taxi, bikee scooter sharing sono forme di trasporto complementari, non rivali". Sebbene le auto bianche non la pensino alla stessa maniera. "Dispiace" risponde il numero uno di Uber Italia "noi non pensiamo di essere perfetti e siamo sempre aperti al dialogo". 

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Marco Morello

Mi occupo di tecnologia, nuovi media, viaggi, società e tendenze con qualche incursione negli spettacoli, nello sport e nell'attualità per Panorama e Panorama.it. In passato ho collaborato con il Corriere della Sera, il Giornale, Affari&Finanza di Repubblica, Il Sole 24 Ore, Corriere dello Sport, Economy, Icon, Flair, First e Lettera43. Ho pubblicato due libri: Io ti fotto e Contro i notai.

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