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Economia

Italcementi e le altre, quando l'industria non è (più) un affare di famiglia

Perché non è indifferente che le grandi aziende abbiano proprietà nazionale e testa in Italia o all’estero

Almeno in questo caso nessuno potrà dargliene la colpa, eppure il premier Matteo Renzi non potrà essere contento che, nel primo anno del governo, siano passati sotto il controllo di colossi stranieri tre gruppi industriali come Pirelli, Merloni e adesso Italcementi.

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Come gesto di benvenuto della grande industria manifatturiera verso le “magnifiche sorti e progressive” decantate dal Rottamatore ci si poteva aspettare di meglio. Almeno negli ultimi due casi, visto che il radicamento italiano di Pirelli era già da molti anni – e tale resterà per alcuni altri – legato più alla credibilità personale del manager Tronchetti che alla forza finanziaria dell’azionista Tronchetti.

Non è un mestiere per famiglie

Invece i casi di Italcementi e Merloni sono casi tipici: proprietà familiari piene – e ancora ricche - che decidono di cedere. Ed è tipica la legittimazione, quasi la “scusante”, che viene presentata dagli interessati e incensata dal “pensiero unico” del turbocapitalismo al servizio dei pochi super-ricchi residui. Secondo questa “narrazione”, alcuni settori ad alta intensità di capitale e a totale globalizzazione non sono più un “mestiere per famiglie”. Non lo è il cemento o il calcestruzzo, non lo sono gli elettrodomestici, appunto.

Indubbiamente: avere scala produttiva e commerciale mondiale, avere ricerca e sviluppo “spesati” su una grandissima base di fatturato, gestire i fattori di costo della produzione giostrando su mercati e sedi produttive opportunamente diversificate sono tutti “atout” che un’azienda globale può usare, mentre una a radicamento eccessivamente nazionale e/o familiare assai meno.

Quelli che non vendono

Ciò non toglie che oggi, dietro quello straordinario fenomeno che è stata ed è Fca ci sia ancora il prevalente capitale – e la prevalente iniziativa – di una famiglia imprenditoriale che non è più impegnata direttamente nella gestione da ormai quasi sessant’anni, ma non vende. Ciò non toglie che Luxottica fatturi in Italia il 3% del totale ma resti saldamente nelle mani delle famiglia Del vecchio, come Esselunga in quelle dell’immarcescibile Bernardo Caprotti o la Ferrero, pur dopo la scomparsa del geniale fondatore e del figlio primogenito, in quelle di un altro validissimo erede; e la lista potrebbe essere lunghissima ed abbracciare i Bombassei della Brembo, gli Squinzi della Mapei, i Marcegaglia, i Cremonini, i Barilla.

L'Italia che funziona

Il “quarto capitalismo”, così acutamente descritto da Mediobanca per la meritoria opera di Fulvio Coltorti, è diventato oggetto di studio ad Harvard come alla London School of economics, ed è fatto di queste aziende qui, che sono più piccole della media statunitense o, ci mancherebbe, cinese, ma sono forti e crescono, e si stanno aprendo al mercato, e sono internazionali, e managerializzate, e digitalizzate, e ci sanno fare, e brevettano, e innovano, e contendono ai tedeschi la leadership nell’export, e insomma: sono l’Italia produttiva che funziona.

Quindi: massimo rispetto per chi, come i Pesenti, fa scelte diverse. Non ha neanche il dovere di dare giustificazioni: della roba sua faccia quel che vuole, ci mancherebbe altro. Del resto, è vero: meglio un’azienda sana trasferita a una proprietà internazionale che un’azienda rimasta nazionale ma malata.

Italcementi però non sembrava malata, ma evidentemente non basta la buona salute d’un organismo se la testa che lo guida vuole altro, ed in fondo è giusto – e bisogna darne atto – cambiare strategie e vendere se non si crede più nella possibilità di far da sé e restare autonomi e nazionali. Questione di crederci o non crederci.

Le differenze

Però, per favore, puntualizziamo alcune cose: non si dica che è indifferente, per il Sistema Paese, che un’azienda abbia proprietà nazionale e testa in Italia o proprietà e dirigenza all’estero. Non lo è perché i dividendi pagati a una proprietà nazionale tendono a restare maggiormente in Italia e a esservi reinvestiti (magari anche in ville e yacht, perché no: sempre Pil sono) che ad andare all’estero, mentre il “know how” manageriale scelto da proprietà italiane tende, anche se straniero, a radicarsi ed assimilare esigenze, punti di vista e “asset” nazionali; all’opposto, quando proprietà e management sono stranieri.

Questione di scelte

E ancora: in casi come questo di Italcementi non si parli di scelte ineluttabili, perché tali non sono. Tantomeno si parli di sacrificio a favore del sistema Paese e del futuro del gruppo. La verità è che il futuro del gruppo sarà brillante oppure opaco a seconda di come sapranno pilotarlo personaggi espressi da una proprietà distante e indifferente alle vicende italiane sotto molti punti di vista salvo quello dello strettissimo interesse, una proprietà che potrà rispondere affermativamente alle richieste – per esempio – del territorio, o delle istituzioni, ma potrà anche strabattersene, come stavano per fare la Whirpool o la Carnival Cruise con la Costa, e come hanno fatto – senza colpo ferire – l’Alcoa o la Ideal Standard, ed anche qui l’elenco potrebbe continuare.

La vocazione naturale

Probabilmente ad Harvard non lo studiano (e certamente i cantori iperliberisti del pensiero unico del capitalismo finanziario sghignazzeranno) ma nel ’60 Luigi Einaudi, in una dedica all’impresa dei fratelli Guerrino, di Dogliani, scrisse parole definitive su “cosa vuol dire” essere imprenditori. In giornate come queste giova rileggerle: “…migliaia, milioni di individui lavorano, producono e risparmiano nonostante tutto quello che noi possiamo inventare per molestarli, incepparli, scoraggiarli. È la vocazione naturale che li spinge; non soltanto la sete di denaro. Il gusto, l’orgoglio di vedere la propria azienda prosperare, acquistare credito, ispirare fiducia a clientele sempre più vaste, ampliare gli impianti, abbellire le sedi, costituiscono una molla di progresso altrettanto potente che il guadagno. Se così non fosse, non si spiegherebbe come ci siano imprenditori che nella propria azienda prodigano tutte le loro energie e investono tutti i loro capitali per ritrarre spesso utili di gran lunga più modesti di quelli che potrebbero sicuramente e comodamente con altri impieghi”.

Ecco, appunto: ci sono imprenditori così, che a un certo punto cambiano idea. Padronissimi. Ma non sono né martiri, né eroi, né patrioti. Erano già ricchi signori, tali restano ancora di più. Prosit. Guardiamo piuttosto, e agevoliamoli, a quelli che diventeranno i nuovi Pesenti di domani. Quelli di ieri, magari, si dimettano dalle cariche in Confindustria.

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Sergio Luciano