Quel rottamatore di Ulisse
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Quel rottamatore di Ulisse

Se vivesse ora, sarebbe un altro Renzi. Il libro di Valerio Massimo Manfredi rilancia l’eroe omerico che continua a essere "moderno". Per furbizia e ambizione

di Giorgio Ieranò

È l’eroe giusto per i tempi di crisi. Uno che sa cavarsela in ogni situazione, che riesce a inventarsi vie d’uscita inattese quando ormai non sembra esserci più scampo. Accendiamo un cero a Ulisse, invochiamolo come nume protettore. Non per caso è, da sempre, l’eroe di ogni modernità. Theodor Wiesengrund Adorno e Max Horkeimer ne fecero un’incarnazione dello spirito illuminista, l’alfiere della tecnica e del dominio sulla natura. Ma Ulisse non è come Prometeo, che si rivolge all’umanità in astratto, al genere umano, a cui apre la strada del progresso con il dono del fuoco. Ulisse parla agli uomini concreti. È l’individuo con i suoi guai privati, una moglie da cui ritornare, una casa da sottrarre all’avidità altrui. È il cittadino che sa di doversi misurare con il suo prossimo, nell’arena della polis, ed è consapevole che, per prevalere sugli altri, l’astuzia e la retorica contano più della forza bruta.

In Italia, ma non solo in Italia, la figura da Ulisse porta impresso da secoli lo stampo di Dante. È l’eroe titanico dell’"ultimo viaggio" che, per amore del sapere, per seguire "virtute e canoscenza", varca anche le colonne d’Ercole. L’Ulisse degli antichi era diverso. La curiosità, certo, non gli mancava. Ma di Polifemo, di Cariddi e delle sirene avrebbe fatto volentieri a meno. L’Ulisse omerico voleva innanzitutto tornare a casa: ritrovare la moglie, il figlio, il focolare. Voleva uscire dal mondo delle favole e rientrare in quello degli uomini. Quando, secondo la fantasia di Platone nella Repubblica , gli viene offerta la chance di vivere una seconda volta, lui chiede per sé la vita anonima di un uomo comune. Vuole soltanto "riporre le valigie in solaio", come scriverà il geniale Alberto Savinio nel suo Capitano Ulisse . Già l’Odissea, per molti versi, è la storia di un antieroe. Ma siamo soprattutto noi moderni, noi figli del Novecento che, da Giovanni Pascoli in poi, non abbiamo potuto fare a meno di identificarci con l’Ulisse antieroico: l’Ulisse naufrago, l’Ulisse-Nessuno, protagonista di un viaggio senza meta, la cui identità è sempre precaria, sempre in discussione.

Ulisse è l’eroe della "metis", parola greca che indica un tipo di intelligenza pratica capace di trovare, di volta in volta, la soluzione concreta a problemi concreti. Ma le avventure di Ulisse sono anche la matrice di tutte le nostre favole.

L’ultimo, affascinante libro diValerio Massimo Manfredi, Il giuramento , fa capire quanto questo immaginario sia inesauribile. Manfredi ha la capacità rara di portarti in mezzo agli eroi omerici come fossero persone vive: leggi il suo romanzo e ti pare di essere nella grande sala in ombra del palazzo di Nestore, con il fuoco che crepita nel braciere. Manfredi, come tutti noi, ha simpatia per Ulisse, pure riconoscendone gli aspetti oscuri e ambigui.

Nella storia della cultura occidentale scorre infatti e da sempre anche il fiume di una profonda antipatia per l’eroe. Questa antipatia è antichissima. Nel II secolo d.C., il retore Filostrato si concede una divertita demistificazione del personaggio, rappresentato come un furbo cialtrone. Chi ci assicura che le meravigliose avventure dell’Odissea siano davvero accadute? Noi le conosciamo solo attraverso il racconto che Odisseo fa alla reggia dei Feaci e come possiamo fidarci della parola di un eroe così abile nell’arte della menzogna? Anzi, vi sembra possibile, scrive Filostrato, che "un uomo che aveva già superato l’età dell’amore, camuso, non alto" facesse perdere la testa a ninfe e divinità, a Circe e a Calipso? Le Sirene e i Ciclopi sono tutte favole, inventate, come diceva Luciano di Samosata, da un "maestro di ciarlataneria". Astuto e buon parlatore, Ulisse appare già agli ateniesi del V secolo a.C. come il prototipo dell’uomo politico. Un gran comunicatore, disinvolto e spregiudicato. Nelle tragedie di Euripide lo troviamo descritto come "uno che sta sempre dalla parte della massa". Ecuba, la regina di Troia, la città che fu distrutta da Ulisse con l’astuzia del cavallo di legno, lo insulta così: "Demagoghi, razza d’ingrati, in caccia solo del favore popolare! Non vi importa di ingannare il prossimo: a voi basta compiacere la folla con i vostri discorsi". Ulisse sarebbe stato, ai giorni nostri, un perfetto rottamatore. Se non fosse che aveva il difetto di amare molto l’ordine costituito. Nel Troilo e Cressida di William Shakespeare, gli sono affidati due discorsi che sono piccoli gioielli della retorica teatrale scespiriana: uno sulla gerarchia e l’altro sul tempo. O, meglio, uno sulla mancanza di gerarchia, sul disordine connaturato alla vicenda umana, e l’altro su come il tempo corroda dall’interno e dissolva ogni pretesa dell’uomo di costituire la sua vita come qualcosa di duraturo. Forse perché condannato, nei suoi mitologici vagabondaggi, a sperimentare la precarietà e l’incertezza, Ulisse ci tiene al rispetto delle gerarchie. E quando, nell’Odissea, il popolano Tersite osa criticare il capo supremo Agamennone, accusandolo di egoismo e avidità, Ulisse lo rimette in riga a bastonate.

Ma quello che differenzia Ulisse dagli altri demagoghi di ieri e di oggi è appunto la consapevolezza della precarietà di ogni destino umano. Ulisse può raccontare bugie a tutti, ma lui alle bugie non crede. Egli sa, come racconta il suo personaggio nell’Aiace di Sofocle, che l’uomo è solo un’ombra vuota, un simulacro. Comprende che se oggi il tuo nemico è nella polvere, e tutti ridono di lui, non devi gioirne perché domani la stessa sorte toccherà a te.

Nel suo lucido disincanto, Ulisse sa che tutti sono mossi da ambizioni meschine anche quando s’impennacchiano con la gloria e l’ideale. Nel Troilo e Cressida, alla fine il suo punto di vista non è molto diverso da quello di Tersite, con il quale sembra infine riconciliarsi nello sguardo impietoso e antiretorico sulla grande epopea della guerra di Troia: «All the argument is a whore and a cuckold», tutto si riduce alla storia di una puttana e di un cornuto. E se l’epopea troiana era tutto qui, figuriamoci come Ulisse e Tersite avrebbero giudicato le nostre piccole baruffe italiane.

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