Mauro Covacich, 'La città interiore' - La recensione
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Mauro Covacich, 'La città interiore' - La recensione

Viaggio nella memoria alla ricerca di un'identità sfuggente: quella di Trieste e dei suoi stranieri in patria

Si rimane imprigionati nelle storie di Mauro Covacich come mosche nella ragnatela. Perduti in un gioco di corrispondenze che si percepisce solo a distanza. Nella cornice di un titolo bellissimo La città interiore amplifica questa sensazione: la storia, la geografia, la psicanalisi, la poesia e la letteratura, l'epopea familiare s'intrecciano in un flusso ininterrotto di pensieri. Alla fine del viaggio - alla fine della lettura - si scoprirà però che al centro di questo libro sta un messaggio universale di fratellanza ispirato a un poema dimenticato, Jama, dello scrittore e partigiano croato Ivan Goran Kovačić.

Nel 1947 Trieste e il suo territorio - un limen di villaggi italiani e slavi sparsi a macchia di leopardo - vengono divisi in zona A e zona B, controllate rispettivamente dagli americani (i territori poi restituiti all'Italia) e dagli jugoslavi (i territori divenuti parte della Repubblica federata, poi annessi alla Slovenia e alla Croazia). Migliaia di esuli lasciano la costa istriana mettendosi in marcia verso Trieste. Un boat people ante litteram, dice Covacich, "strumentalizzato per decenni in ottica revanscista". Ma la realtà è molto più complessa. I confini disegnati a penna su una carta geografica ignorarono la peculiare complessità di un mosaico di popoli dal sangue misto, appartenenti a un doppio universo linguistico e culturale: quello slavo-continentale e quello latino-mediterraneo.

La città interiore offre una rilettura emozionale (cioè a un tempo emozionata ed emozionante) di un pezzo di storia contemporanea: la storia plurisecolare di una popolazione costretta con prepotenza all'esilio. Una storia che si ripete, come sappiamo. Anche se gli esuli africani e albanesi che oggi si tuffano dal lungomare di Trieste, felici come triestini, sono diversi dai protagonisti dell'omonimo romanzo di James Joyce, scritto a Trieste tra il 1915 e il 1916 negli intermezzi dell'Ulisse. I migranti di oggi sono esuli che non torneranno, che non vogliono tornare; mentre gli esuli di Materada, il romanzo di Fulvio Tomizza del 1962, non avrebbero mai voluto partire. Invece un giorno caricarono su un carro "un sacco di piccole cose che non servivano a niente", sperando invano di portare con sé la vita.

Se la memoria è una brutta bestia che "spesso agisce contro la tua volontà", è la letteratura a far tesoro di un disagio quasi consustanziale alla triestinità. Che non è solo l'attitudine cerebrale e nevrotica di Zeno Cosini ma anche quella specie di ebbrezza sensuale che sprigiona dall'Onda dell'incrociatore di Pier Antonio Quarantotti Gambini, è l'angoscia di un Kafka moribondo che a Trieste scrive ogni giorno per consolare una bimba incontrata per strada, ed è la malinconia di chi sa che "anche la rinascita più felice comporta una perdita irreparabile", di chi vede il proprio vecchio invecchiare un anno al giorno. La sintesi leopardiana è del nonno dello scrittore: "El dolòr purtropo no mazza nissùn".

Grande romanzo sul potere salvifico della memoria e della poesia, La città interiore intarsia aneddoti personali come un esame di letteratura tedesca con il professor Magris o la cena con il premio Nobel John Maxwell Coetzee discettando di "letteratura minore", viaggi febbrili nelle campagne bosniache, fiabe bizzarre come l'epopea del triestino Antonio Bibalo, sconosciuto in patria eppure fra i padri della musica scandinava contemporanea. Non mancano episodi di grande fisicità narrativa, come quelli a cui Covacich ci ha abituato descrivendo A perdifiato le mutazioni dei processi cerebrali quando sono intossicati dalla fatica. Qui ad Alicudi, durante un'apnea il narratore viene risucchiato dalle tonalità ipnotiche del cobalto, e proprio nell'attimo che precede l'anossia il suo pensiero acquista la lucidità di una visione.

Lo stile ellittico del romanzo ha come antesignano l'Italo Svevo della Coscienza di Zeno, a cui l'autore dedica intense illuminazioni, mettendo in relazione ad esempio l'architettura del suo capolavoro con la tecnica del cut up, il montaggio alternato del cinema di Iñárritu, da cui lo dividono novant'anni. Ecco cosa vede forse l'apneista prima di perdere i sensi. Vede tutto insieme il grande corpo della città con la sua mescola di Oriente e Occidente, onde e monti rocciosi, spie e guardie di frontiera, eroismi ed erotismi, orgoglio e romanticismo, fascismi e comunismi, italiano e dialetto. Vede perfino le cavità carsiche, quei tragici inghiottitoi di anime e corpi, restituite alla loro semplice, indifferente natura di anomalie geologiche.

Si scrive sempre per una persona sola, insegna Kafka, "per incastrarla o per aiutarla". Da ogni Risiera della morte, da ogni linea del fronte si scrive per chi resta, per testimoniare l'orrore, per non perdere la speranza. Trieste allora, come Città del Capo o come Montreal, Riga, Vilnius, Gerusalemme, è un nowhere divenuto un grande everywhere. È la città interiore, un organismo collettivo che non ha più bisogno di costruirsi un'identità perché capace di trasformare l'odio, la paura, i pregiudizi in una forma di convivenza.

Mauro Covacich
La città interiore
La Nave di Teseo
240 pp., 17 euro

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Michele Lauro