Larry Sloman, 'On the road with Bob Dylan'
Falcinelli & Co. / Livia Massaccesi
Lifestyle

Larry Sloman, 'On the road with Bob Dylan'

La storia del leggendario Rolling Thunder Revue, raccontata da un giovane inviato di Rolling Stones che Bob Dylan aveva aggregato alla carovana come crooner e testimone del più celebre tour della storia del rock.

Creatività, sperimentazione, condivisione. Musica, poesia, impegno sociale. Amicizia, viaggi, sballo e visioni. Alla metà esatta degli anni Settanta il Rolling Thunder Revue prese in dote lo spirito Sixties e lo portò in giro per qualche mese nel nord-est americano. Attorno al capo carismatico, Bob Dylan nel pieno di una rinascita creativa appena sfociata in due capolavori come Blood on the Tracks e Desire, si radunò una carovana di talenti che ne assecondava il disegno utopico: una tournée fuori dai canoni del music business, esibendosi dove capitava, improvvisando giorno dopo giorno. Con l'obiettivo di lasciare che le cose, semplicemente, accadessero.

Di quel gruppo di matti, zingari e vagabondi reclutato nel Village newyorkese faceva parte - invitato da Dylan in persona - Larry Sloman, giovane cronista di Rolling Stones che Joan Baez si affrettò a ribattezzare Ratso, come Dustin Hoffmann in Un uomo da marciapiede. Pubblicato originariamente nel 1978, On the Road with Bob Dylan è il reportage di quei giorni irripetibili: un collage narrativo fatto di interviste, racconti e memorie personali, allusioni e tracce, sogni e intimità, poesie, canzoni e incontri.

Schivando pericolosamente i limiti imposti dal management dylaniano e rinunciando a occuparsi del gossip, ciò che invece gli chiedeva il suo editore, Sloman si calò nella parte del personaggio al punto di passare, a un certo punto del libro, alla terza persona. È al mitico Ratso che l'autore fa raccontare la vita on the road di quella combriccola sgangherata, una vita decisamente e spesso letteralmente sopra le righe (specie nel backstage). Il suo sguardo, ha detto Kinky Friedman nell'introduzione all'edizione 2002, è "una videocamera digitale e il suo udito paragonabile a un dvd high tech".

Gitani da commedia dell'arte, li definì Dylan. C'erano Eric Clapton e l'ex Byrd Roger McGuinn, la moglie Sara e la violinista Scarlet Rivera, Joan Baez e Ramblin' Jack Elliot, l'amico Bob Neuwirth e Mick Ronson, i poeti beat Allen Ginsberg e Peter Orlovsky che si arruolò come "portabagagli". E tanti amici recuperati on the road, come Joni Mitchell salita sul palco a New Haven, Arlo Guthrie, Leonard Cohen, Robbie Robertson. Una mole felliniana di musicisti a cui fornì carburante sociale il sostegno alla causa di Rubin Carter, il pugile nero in carcere per un omicidio che non aveva commesso: la storia raccontata da Dylan in Hurricane.

La prima parte del tour iniziò in ottobre a Plymouth e culminò l'8 dicembre nello spettacolo di beneficenza al Madison Square Garden intitolato The night of the Hurricane. Fra improvvisazioni, defezioni, cambiamenti di itinerario, pellegrinaggi memorabili come quello sulla tomba di Jack Kerouac e viaggi simbolici come quello alla riserva indiana di Tuscarora. Il successo del Rolling Thunder Revue e l'aura di leggenda che lo accompagnò fin da principio (ne scaturirono un album doppio, il film cubista Renaldo & Clara più chilometri di girato ancora inediti, svariati libri fra cui questo) fu anche una sonora pernacchia alla CBS, la potente etichetta americana, che aveva negato il sostegno economico liquidando il progetto come "cazzate".

Ma la cosa incredibile è che nonostante (o a causa) il suo status di icona mondiale, Bob Dylan quarant'anni dopo gira ancora il mondo in camper, sempre refrattario al mainstream. La sensazione, o la suggestione, è che proprio il Rolling Thunder sia stato la magica scintilla capace di risvegliare il nomadismo archetipico di un musicista sciamano, reincarnandosi in quel Neverending tour che va avanti ininterrottamente dal 1988.

Vale la pena dunque interrogare il tuono rombante sull'identità erratica di Robert Zimmerman, raro caso di personaggio mitologico vivente: oltre che vegetariano e irrecuperabilmente asociale, conclude Friedman, è stato anche "ebreo ortodosso, cristiano, buddista, ateo carismatico, poeta, chitarrista da plettro, pellegrino, motociclista, pugile, maestro di rodeo e maestro di balle, giocatore di scacchi, eremita, amante degli animali, guardiano del faro, apicoltore, torero, collezionista di farfalle e, in tarda età, collezionista di francobolli: praticamente, a parte repubblicano, è stato tutto ciò che può diventare un essere umano dall'animo inquieto".

All things are beautiful in their time (Ogni cosa è bella a suo tempo) ha cantato nel 2013 Bob Dylan in Scarlet Town, dall'ultimo Tempest. Ma il sogno di quell'autunno del 1975 era di una bellezza che andava oltre il tempo, le parole e la musica. Una bellezza profetica.

Larry Sloman
On the road with Bob Dylan
Minimum Fax
pp. 554, 18 euro

I più letti

avatar-icon

Michele Lauro