Némirovsky, 'Suite francese" diventa film: la vita è più forte della letteratura
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Némirovsky, 'Suite francese" diventa film: la vita è più forte della letteratura

Morì ad Auschwitz, non terminò il suo romanzo, culto non solo per palati fini. Perché più della scrittura vale la storia. La sua

Se non sapessimo tutto quello che sappiamo su di lei, sarebbe così potente la scrittura di Irène Némirovsky? Suite francese, romanzo incompiuto perché l’autrice finì la vita invece di quello, ad Auschwitz, entrerebbe così sottopelle, fissandosi? Dopo 7 anni di incertezza, la Universal ha superato i timori legittimi e ha deciso di battere il primo ciak in primavera. Comprò i diritti di Suite francese nel 2006, anno dell’uscita negli Stati Uniti, ma le "ansie da prestazione", come si direbbe in psicoanalisi, fermarono il progetto. Fin da subito il libro di Irène Némirovsky smise di essere solo un libro: più un totem, un sacro tomo dove la storia della Francia occupata dai tedeschi e quella dell’autrice si contendevano il primato per forza narrativa. Come se la realtà di una singola persona (le vicende di Irène Némirovsky) scolorisse la tragedia di molti.

L’appendice di Suite francese, dove è raccolta la corrispondenza fra Irène, il marito, l’editore e gli amici, rimane incisa dentro, insieme agli appunti della scrittrice. Appunti sulla scrittura del libro (lo immaginava diviso in cinque lunghi capitoli; fece in tempo a scriverne due prima di morire nel lager nell’agosto 1942, forse di tifo, forse gasata); e poi riflessioni lucide sul destino imminente della sua stirpe, ebraica; e l’angoscia per quello delle figlie, Denise ed Elizabeth, affidate a una governante, braccate dai nazisti. Senza contare la valigia, sembra di vederla al seguito delle due bambine, portata di nascondiglio in nascondiglio, pesante di fogli densi di scrittura piccolissima per risparmiare l’inchiostro e pesante di simbologia, perché eletta a simulacro della madre scomparsa.

In Italia dal 2005 la Adelphi ha pubblicato 15 suoi titoli, sfiorando il milione di copie, dato che ha fatto entrare Némirovsky nell’olimpo della casa editrice, vicina a Georges Simenon, Milan Kundera, Sandor Marai. In queste settimane il Corriere della sera propone i libri di Némirovsky superando i 15 mila volumi a titolo.

Dal primo libro apparso in Italia, Il ballo, un piccolo gioiello sul rapporto madre-figlia, il tam-tam ha garantito all’apolide Némirovsky nazionalità nel mass market della cultura come nel più snobistico salotto intellettuale. Vuoi per l’eterno senso di colpa che si nutre per chi subì l’orrifico epilogo, vuoi perché nel suo caso lo sgomento è doppio: poche scrittrici più di Némirovsky furono critiche, impietose, quasi sbeffeggianti nei confronti degli ebrei (nel 1939 si convertì al cattolicesimo, invano), a cominciare dal suo primo romanzo, David Golder del ’29, che la rese famosa in Francia e in molti paesi.

Forse il punto è sempre lo stesso: quando la lente del privato impatta con l’arte, l’oggetto-libro sfuma nel soggetto-autore. Le pagine si colorano di vissuti altri, la realtà condiziona la fiction. Si perde di oggettività, subentra un buonismo nel giudicare trama e scrittura. Le eroine di Giacomo Puccini sono più strazianti perché si conoscono le vicende private del compositore, donnaiolo fino a incorrere in guai giudiziari; le poesie di Arthur Rimbaud non sono forse esaltate dal suo maledettismo esistenziale?

Sarà dura dunque per Saul Dibb, regista e sceneggiatore, toccare Suite francese, addirittura tagliarla, perché a detta delle indiscrezioni il film si concentrerà solo sul triangolo suocera-nuora-spasimante, ovvero l’acida signora Angellier, la romantica Lucille e il tenente tedesco acquartierato in casa delle due donne. Uno scorcio di vita rispetto ai movimenti di massa, al dramma collettivo e all’intreccio di destini raccontati in Suite francese che, con scarsa modestia, l’autrice paragonò alla Quinta di Ludwig van Beethoven.

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Stefania Berbenni