La guerra nel nome dell'Islam
DOMINIQUE FAGET Getty images/AFP
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La guerra nel nome dell'Islam

Nell'ultimo numero di Prometeo, un saggio dello storico Claudio Vercelli spiega chiaramente genesi e contesto del fenomeno e sottolinea l'obiettivo dei jihadisti: l'egemonia nei paesi musulmani

Siamo tutti kuffar, cioè miscredenti e impuri?
In questi giorni, dopo le stragi di Parigi, con il loro fardello di dolore, si moltiplicano le prese di posizione e gli interrogativi. Una delle analisi più complete e perspicaci viene offerta dal nuovo numero di Prometeo, il trimestrale di scienze e storia della Mondadori diretto da Valerio Castronovo.

A disposizione dei lettori c’è infatti un saggio cruciale per comprendere le numerose valenze che gravitano attorno ai valori, alle scelte e alle finalità di chi imbraccia le armi in nome dell’Islam. L’articolo si chiama proprio “Pensare il radicalismo islamico” e ne è autore Claudio Vercelli, ricercatore di storia contemporanea, membro dell’Istituto di studi storici Salvemini di Torino e specialista del tema.


In quindici fitte pagine, ricche di spunti rigorosi, il discorso inizia dalla genesi del fenomeno – che molti fanno risalire ai Fratelli Mussulmani dell’Egitto di inizio Novecento – per transitare dall’impatto della Guerra dei Sei Giorni del 1967 e dalla rivoluzione khomeinista del 1978-79, fino ad arrivare all’Isis siriano di oggi. Vercelli mette alcuni punti fermi a un canovaccio che riempie anche in questi giorni le prime pagine dei giornali con slanci che vorrebbero essere analitici ma spesso mancano di informazioni essenziali.

Persino la parola jihad rischia di essere travisata dalla pubblicistica corrente. Di solito lo traduciamo come “guerra santa”, concetto in realtà assente nel Corano. Si tratta infatti di una parola polisemica, da interpretare prevalentemente nell’accezione di «esercitare il massimo sforzo» nel perfezionamento della propria fede e della sua imposizione ad altri. Un altro equivoco molto attuale? È sui kamikaze. L’Islam vieta il suicidio, ammettendo semmai che si possa morire per far affermare la fede (è l’attività dello shahjd, cioè di colui che si incammina “sulla via di Allah”).

Il grandissimo pregio del saggio di Vercelli è aver saputo prima distinguere e poi integrare alcuni dei nodi della vicenda. Il primo dei quali è il rapporto articolato e dinamico che realmente intercorre tra Islam storico e islamismo radicale. Ma non possiamo certo dimenticare il paradosso della “modernità come metodo” per i terroristi islamici, oppure la considerazione che il loro vero obiettivo è conquistare l’egemonia politica nei Paesi musulmani (mentre gli attacchi all’Occidente si configurano soprattutto come episodi di propaganda da utilizzare a tal fine). È insomma uno scenario complesso ma, del resto, semplificare non consentirebbe di affrontare una questione di fondo, che peraltro ha quattordici secoli di storia e un’estensione territoriale dal Marocco all’Indonesia.

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Redazione