Freshwater, Virginia Woolf comica
Roger Fry, circa 1917 (Wikimedia Commons)
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Freshwater, Virginia Woolf comica

Nemmeno l'autrice prese davvero sul serio il suo lato scherzoso e divertente che si manifesta in questa commedia edita ora da Nottetempo

Che Virginia Woolf fosse affetta da una malattia maniaco-depressiva lo sanno tutti. Lo sapeva soprattutto lei che lo rivelava con dovizia di particolari in lettere, diari e romanzi.

Che poi quella stessa donna così incorporea da sembrare eterea, dall’incarnato lunare, di una malinconia a tratti inguaribile e dagli occhi enormi, fosse capace di adottare toni scherzosi e irriverenti si sa di meno, e forse neanche lei lo prese davvero sul serio.

Ma, del resto, fu la stessa che affermò che “La bellezza del mondo ha due tagli, uno di gioia, l’altro di angoscia, e taglia in due il cuore”.

Un incontro al Festivaletteratura di Mantova ha portato sulla scena, per un istante, il lato comico di una scrittrice che ha fatto dell’introspezione la sua timbrica più forte, ma non l’unica.

A parlarne sono intervenuti creando un’atmosfera giocosa e ridanciana Chiara Valerio, traduttrice e curatrice della nuova edizione della commedia Freshwater per le edizioni Nottetempo, e Luca Scarlini. A lui un esordio per dare l’impronta di un incontro: “Il lato comico di Virginia Woolf è come dire il lato sexy di Lino Banfi!” A sottolineare l’esistenza di quella che parrebbe un’anomalia.

E qui comincia la storia. Era il 1923 quando Freshwater vide la prima stesura, ma fu solo nel 1935, in occasione della festa per la nipote Angelica, che la rappresentazione fu messa in scena dopo un’attenta revisione del testo. Virginia Woolf la definì “una buffonata” (rather tosh), una sorta di divertissment letterario. Il cast d’eccezione fu scelto dalla scrittrice stessa che si avvalse della collaborazione dei propri familiari, i quali, del resto, già nelle intenzioni iniziali, erano i reali destinatari della commedia. Nacque così Freshwater, che ambientata nel 1865, appariva da subito uno scherzoso escamotage per parlare del proprio presente.

Chiara Valerio parla infatti di una Virginia Woolf che “riavvolge il nastro del tempo”. La scrittrice compone un gioco di specchi che le permette di ambientare in un passato pressoché prossimo — parliamo degli antenati della scrittrice — valori e situazioni facilmente riconducibili al gruppo di Bloomsbury, un circolo di intellettuali e artisti a cui la scrittrice rimase sempre legata e di cui faceva parte lo stesso T. S. Eliot.

A Freshwater, in quella ridente cittadina dell’isola di Wight, meta della classe borghese del tempo, si muovono personaggi trattati dalla scrittrice con insolita irriverenza e ironia, con una leggerezza frivola che talvolta assume toni parodistici senza abbandonare tratti realistici. Ci sono la famosa fotografa Julia Cameron (prozia della scrittrice), il poeta Tennyson, il pittore Watts con la giovane moglie-musa (che tanto mi ricorda Mira Sorvino nella Dea dell’amore di Woody Allen) e il più modesto, s’intende culturalmente, sottotenente John Craig. Tra gli altri: un delfino e una scimmietta. C’è dunque chi immortala, chi recita versi, chi dipinge, chi posa immobile, chi non comprende né parole né arte.

Ci sono anche qui, come sottolinea Chiara Valerio, i due estremi cui la scrittrice ha sempre dedicato le sue attenzioni: gli aristocratici e il popolino, la cui distanza è anche differenza di linguaggio e incomprensione reciproca. Non mancano i vecchi e i giovani e la lotta immortale tra la giovinezza legata alla beltà e rivolta al futuro e una vecchiezza predatoria, immobile e attaccata al passato.

Virginia Woolf gioca con le parole, prende in giro i propri personaggi, li svia e li confonde con nonsense. Con l’arma sottile e acuta dell’umorismo colpisce loro ma anche, in maniera indiretta ma efficace, la sua cerchia di frequentazione. A loro Virginia non risparmia niente partendo dall’ironia sul lessico per approdare alla destrutturazione del genere biografico in voga al tempo. Le biografie Julia Margaret Cameron e Ellen Terry presenti nella stessa edizione e tradotte per la prima volta ne sono un divertito esempio.

Succede quindi che in questa bizzarra commediola e nei tre scritti che seguono (le due biografie e il racconto Una scena dal passato), se vogliamo frivoli, dai toni familiari, quanto intellettuali, riesce a emergere il tono sardonico che Virginia Woolf adottava fuori dalle stanze letterarie e narrative del romanzo e dentro a quel circolo di Bloomsbury a cui l’arte della conversazione leggera e un po’ naïf non doveva essere di certo estranea.

Ma questo non basterebbe a comprendere un’opera che, pur utilizzando toni ironici, non sconfessa le caratteristiche di una scrittrice che visse sempre con dolore e inadeguatezza il confronto con se stessa e la propria sofferenza interiore, tanto da voler sempre rincorrere l’immagine di una scrittrice/artista di successo.

Come dice Luca Scarlini: "C'è qualcosa di eversivo nel ridere, troppo facile passare tutto il tempo a piangere". E nelle mani della Woolf, questo timbro scanzonato diventa un’arma potente di ribellione e di snobismo antintellettuale verso una classe che fa dell’arte il proprio trofeo, ma che, come spesso osserva Virginia Woolf, non ha la sua stessa percezione sensoriale, né le stesse doti artistiche, irrigiditi nella propria figura e vittime di un’ossessione estetica. Uno snobismo che quindi parrebbe già di per sé eversivo.

Quest’opera nel corpus della Woolf rappresenta una leggera e piacevole anomalia e un dettaglio, che appunto perché minuto e piccolissimo, ha bisogno di essere messo in luce per capirne l’importanza. Anche se quel tono irriverente, come sottolinea Chiara Valerio, accompagna tutte le sue opere e non rappresenta una reale eccezione.

Rimane così il gusto di scoprire aspetti divertenti di una scrittrice di cui diari, lettere, romanzi parevano avere detto tutto ma non abbastanza.

Lo stesso Ionesco, che la mise in scena nel 1984 e la cui frase Chiara Valerio riporta, dichiarò: “Freshwater è un copione inutile, ma questa è la ragione per cui è importante”.

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Mary Adorno