Carmen Pellegrino, 'Se mi tornassi questa sera accanto' - La recensione
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Carmen Pellegrino, 'Se mi tornassi questa sera accanto' - La recensione

Di qua e di là dalle mura imposte dai vincoli familiari: l'epica della disperanza in un romanzo che rinnova il genere epistolare

Si dice che vale la pena ricordare, far rivivere il tempo, le cose, le persone, solo se qualcuno ti ascolta. E si dice anche che la solitudine è bella, ma solo se c'è qualcuno a cui confessarlo. Eppure esiste un magico infingimento per presentificare l'assenza: la scrittura. Alla poetica dell'abbandono declinata in tutta l'ampiezza delle sue varianti - biologico, sociale, fisico e metafisico, inconscio, politico, metaforico - Carmen Pellegrino ha dedicato una ricerca giunta ora al secondo romanzo, ispirato nel titolo e nel mood da un verso di Alfonso Gatto: Se mi tornassi questa sera accanto.

Il "lento strisciare degli anni" e la "condanna a una vita moribonda" che dominavano le atmosfere di Alento in Cade la terra, tornano qui nelle lettere che padre e figlia consegnano al fiume in qualche remoto borgo dell'Appennino. Pezzi di ricordi mischiati ai rimpianti, alle disillusioni, ai silenzi, a vaghe utopie e alle rade incombenze quotidiane si susseguono in flashback non conseguenziali. Ma l'unità temporale del racconto è tenuta insieme dalla malinconica attitudine di Nora, moglie e madre con "l'infelicità nel sangue". Giosuè e Lulù sono i vertici di un triangolo familiare che si sfalda progressivamente nel drammatico passaggio dallo spaesamento interiore alla demenza, per appassire infine a una irrimediabile distanza.

Mentre però nell'esordio di Carmen Pellegrino era la dimensione fantasmatica a prevalere (il riscatto dei paesani defunti durante il rito della cena spiritica), qui c'è una forza primitiva che impregna il racconto di terra e acqua, sapori e odori, umori corporei, oggetti, desideri, fughe. La grande piena del Fiumeterra trasporta fra i suoi detriti le grigie frontiere esistenziali di una prigione-famiglia che incatena senza chiavistelli, affrontando temi complessi come l'infanzia deprivata di una figlia costretta a fare da madre alla propria madre, il rapporto maledetto con il decadimento psicofisico, i sensi di colpa per il fallimento della coppia che ti ha generato, l'affetto che continua a covare perfino dentro il sopruso.

Lulù consuma la sua giovinezza nell'illusione di aprire un'officina per aggiustare i pensieri rotti di sua madre Nora, o almeno di compiere un gesto riparatore che spezzi la ragnatela della colpa liberandola dalla tirannia dei legami di sangue. Complice il padre, quell'illusione assume le sembianze di un luogo mitologico, l'Ignoto Ideale, costruito dal genitore sulle macerie dei propri fallimenti amorosi, politici, esistenziali. Quando la ragazza se ne rende conto e compie lo strappo, è troppo tardi. La pienezza si trova ormai sull'altra sponda del fiume, eppure sulla zattera dove si è arenata incontra un bislacco fuggiasco a cui "piaceva vivere da fuorilegge anche se non commetteva reati", dal quale apprende forse un'imprevista leggerezza.

Girl in amber, la Ragazza nell'ambra cantata da Nick Cave in una dolente ballata dell'album Skeleton Tree, mi pare la metafora (e la colonna sonora) perfetta per questa storia. "Alcuni vanno avanti, alcuni restano indietro / Alcuni non si muovono per nulla / Ragazza nell'ambra, intrappolata per sempre, scivola giù verso il salone". Leggendo le Cronache dai funerali compilate da Nora con la calligrafia invisibile o a specchio, Lulù comprende che attraverso quel rito sua madre aveva cercato di dare un senso alla solitudine cosmica ma anche di sublimare nella scrittura la viscosità che l'aveva intrappolata e che ora stava per ghermire anche lei. Oltre quel limite, rappresentato dalla famiglia, o si muore o si fugge. Nora era troppo debole per entrambe le opzioni.

Raminghi, vagabondi, bastardi, nomadi, fascinosi inaffidabili ciarlatani. Oppure tenaci, vigorosi, idealisti, affidabili capifamiglia, ciechi al punto da stringere nel pugno il vuoto. O ancora prepotenti e insicuri, autoritari, fragili, violenti magari inconsapevolmente. Gli uomini di questo romanzo sembrano spezzati da un'atavica vulnerabilità, quella di chi prima o poi si guarda allo specchio e vede una sagoma uguale al fantasma da cui per tutta la vita ha creduto di scappare: il proprio padre. Fra gli archetipi dell'identità maschile, pieni di contraddizioni, brilla in questo romanzo scritto da una donna soprattutto la genetica incapacità di ricucire, di dire la semplice parola che ripara, che aggiusta. Quando è pronunciata postuma, come nei versi di Alfonso Gatto o nell'indimenticabile chiosa di Umberto Saba ("Allora ho visto che era un bambino, / e che il dono ch'io ho da lui l'ho avuto"), quella parola diventa una rivelazione, diventa letteratura.

Nella carità di sguardi per il destino infinito del mondo e quello finito delle persone si annida la sincera pietas di questo romanzo. Custode di silenzi che solo a volte sono popolati di buoni ricordi, più spesso rimandano a qualche verità nascosta nel fondo dell'animo, mica bella da verificare. Quel segreto scaraventato nella corrente che in apparenza si muove verso una foce o un fine qualunque, ma più da vicino sembra girare in circolo e ricominciare sempre dal principio, accordandosi alla casualità del mondo secondo un ritmo misterioso. Come l'acqua del fiume, come tutte le cose destinate a durare più in là del nostro oblio.

Carmen Pellegrino
Se mi tornassi questa sera accanto
Giunti
240 pp., 16 euro

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Michele Lauro