Arundhati Roy, 'I fantasmi del capitale' - La recensione
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Arundhati Roy, 'I fantasmi del capitale' - La recensione

Un'inchiesta feroce sui retroscena della crescita economica indiana. Dalla più autorevole fra le intellettuali contemporanee

Un popolo di fantasmi si aggira per l'India, la massa di diseredati vittime del neoliberismo selvaggio: I fantasmi del capitale. La riminiscenza marxiana ha la forza evocatrice delle parole di Arundhati Roy, una delle ultime intellettuali gramsciane del pianeta. Nel suo ultimo pamphlet traccia una mappa delle ingiustizie e degli abusi di un sistema economico malato, quel capitalismo fondato in India su una distopia aziendale autogovernata. Ecco I padroni dell'umanità, come li ha chiamati Noam Chomsky in un recente saggio.

Negli anni Novanta Arundhati Roy era avviata verso una luminosa carriera di scrittrice dopo il folgorante esordio con Il dio delle piccole cose (1992, pluripremiato e tradotto in 21 paesi), ambientato in Kerala dove era cresciuta. Ha scelto invece la strada dell'attivismo, gettandosi nelle battaglie politiche e sociali - iniziative, conferenze, saggi, reportage - con una lucidità pari alla poesia di cui era imbevuto il suo romanzo. Dopo lo scalpore suscitato l'anno scorso dalla sua presa di posizione a favore delle idee di B.R. Ambedkar, padre della patria e avversario di Gandhi sulla questione chiave della società indiana (il sistema delle caste), Arundhati firma ora questa raccolta di inchieste 'scomode', parzialmente già comparse su Internazionale.

"Nazionalisti e governo sembrano convinti di poter rinsaldare il loro ideale di un India risorgente con una combinazione di bullismo e Boeing". Come sempre non le manda a dire, Arundhati. Snocciola cifre che fanno impressione. Su una popolazione che supera ampiamente il miliardo di persone, i beni dei cento individui più ricchi equivalgono a un quarto del PIL nazionale. Circa ottocento milioni di indiani sopravvivono con meno di venti rupie al giorno, "spiriti degli inferi" fra cui c'erano anche i duecentocinquantamila agricoltori che si sono tolti la vita. L'India è gestita di fatto da una manciata di multinazionali che hanno messo le mani su tutto, dalle risorse naturali alla sanità, dai trasporti all'informazione e, naturalmente, all'amministrazione pubblica, espandendosi in Europa, Asia, Africa e America Latina. Solo la Tata dirige più di cento aziende disseminate in ottanta paesi.

Gush up è l'espressione che meglio identifica il fenomeno: "zampillo verso l'alto" ovvero concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi, nella speranza che qualche goccia cada a "bagnare" anche i meno abbienti (trickledown). Una politica francamente abietta (si possono fare molti soldi con la povertà) che ha cancellato i poveri dalle rilevazioni economiche e sociali. L'India ha un tasso di crescita fra i più alti al mondo al prezzo di una sperequazione sociale infinita, violenze, discriminazioni, espropri, crimini umanitari. Milioni di contadini privati della terra sono ancora costretti a sfollare a causa del progresso - grandi opere infrastrutturali come autostrade, miniere, dighe, zone economiche speciali.

Il capitalismo indiano è uno specchio del sistema mondiale egemone e globalizzato, preoccupato oggi di prevenire e gestire le crisi endemiche sempre più frequenti. La sua ideologia è così pervasiva da non essere più percepita come tale. Un tassello fondamentale del marketing neoliberista è costituito dalla filantropia culturale. Sovvenzionate da aziende e fondazioni, dice senza mezzi termini la scrittrice, le più ricche e potenti fra le ONG sono i "canali di scorrimento della finanza globale". Incamerando il denaro dei finanziatori, funzionano con lo stesso meccanismo per cui gli azionisti comprano quote di una società per controllarla dall'interno. Artefici, loro malgrado, della "trasformazione dell'idea di giustizia nell'industria dei diritti umani".

Un'immagine agghiacciante che rappresenta la follia dei nostri tempi, ha raccontato una volta Arundhati Roy, è costituita dal ghiacciaio Siachen, campo di battaglia di indiani e pakistani per il controllo del Kashmir fin dal 1984. Il ritiro dei ghiacci lascia dietro di sé un deserto insanguinato di bossoli, taniche di carburante, piccozze, stivali, "ferri del mestiere". Il disastro ambientale si aggiunge a quello umanitario portando alla luce i simboli dell'odio insensato, l'odio fratricida che da settant'anni insanguina questo luogo pregno di miti e di storia, culla delle religioni induista, islamica e budddista.

Sparito dalle pagine dei giornali, il Kashmir continua a essere una delle regioni più militarizzate del mondo. Vi si mantiene un ordine fittizio a suon di minacce e proiettili, coprifuoco e censura. Arundhati va nelle campagne di Srinagar ad ascoltare la rabbia delle persone. Rischia l'arresto. Finisce omaggiata di una cassa di mele e un paio di uova ancora calde da un contadino muslim. Il racconto delle sue peripezie ha il ritmo e il pathos dei migliori action movies.

Nella postfazione è riportato il discorso tenuto nel 2011 alla People's University, filiazione del movimento Occupy Wall Street. L'appassionata difesa del diritto di dire basta a un sistema che continua a produrre diseguaglianza termina con alcuni spunti prerivoluzionari nonviolenti, da rileggere oggi anche alla luce della drammatica destabilizzazione provocata dai flussi migratori in aumento. "Le rivoluzioni possono cominciare, a volte lo hanno fatto, dalla lettura di un libro", ha scritto la Roy nell'introduzione a Annihilation of Caste. Non è mai troppo tardi.

Arundhati Roy
I fantasmi del capitale
Guanda
pp. 176, 14 euro

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Michele Lauro