Se muori mi presti Céline? – ospite: Sergio Garufi
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Se muori mi presti Céline? – ospite: Sergio Garufi

C’è un punto sulla circonvallazione Trionfale in cui (da cui?) è difficilissimo attraversare. C’è tanto di strisce e di semaforo, però la conformazione della strada è tale che: 1. il pedone, realizzando che deve attraversare, si arresta ma, anziché armonicamente …Leggi tutto

C’è un punto sulla circonvallazione Trionfale in cui (da cui?) è difficilissimo attraversare. C’è tanto di strisce e di semaforo, però la conformazione della strada è tale che:

1. il pedone, realizzando che deve attraversare, si arresta ma, anziché armonicamente consigliato rispetto alla mèta da tutte le parti che compongono il suo essere, appare posseduto, visibilmente, da una lotta immobile tra lo stare e l’andare, con prevalenza dell’andare, e da un rallentamento di tutte le facoltà psicomotorie, come se la sua volontà cosciente fosse risucchiata dall’imperativo puramente fisico di attraversare;

2. il suddetto pedone, non si sa perché, è quasi naturalmente portato a prendere subito la perpendicolare, a mettere il piede in mezzo alla strada, senza guardare se arrivino macchine, a volte anzi ostentatamente guardando per terra, o lo schermo del telefono, come se fosse suo pieno diritto rischiare una fine orrenda e volesse esercitarlo;

3. il guidatore che procede per la sua strada, benché ci sia un semaforo e quello sia a tutti gli effetti un incrocio pedonale, proprio in quel punto è come spinto da una forza invisibile ad accelerare, come se ci fosse una salita o l’uscita da una curva, anche se non c’è niente di tutto ciò;

4. può anche capitare, sempre per ragioni oscure e per estremo paradosso, che pedone e guidatore che abbiano fatto già esperienza della pericolosità dell’incrocio restino entrambi immobili, bloccati, l’uno ai margini l’altro quasi in mezzo alla strada, a guardarsi come gatti scimuniti dal terrore, mentre il semaforo, idiota, si fa tutti e tre i colori anche due tre volte.

In più, uno strano riverbero della luce del sole, e quando non c’è il sole uno strano baluginio che proviene dalle finestre dei palazzi che rispecchiano le pozzanghere le quali a loro volta rispecchiano il sole che non c’è, fa sì che non si capisca mai se il semaforo è rosso, o arancione, o verde (sembra sempre di una strana sfumatura di blu).

Ora: è generalmente noto tra i miei conoscenti che ogni qual volta è in mio potere decidere, preferisco che siano loro a morire anziché io; intendiamoci, non che io di regola favorisca la loro morte al solo scopo di ridurre in termini percentuali la possibilità che muoia anche io per la legge dei due metri quadrati (almeno un vivo nei due metri quadrati nei quali uno è morto) – sebbene ne riconosca la validità teorica; tuttavia, cerco lo stesso di indirizzare, quando posso e con la pura resistenza passiva, la scelta del Fato.

In ottemperanza a questo principio, è quindi comprensibile che il mio scopo principale, quando mi trovo ad attraversare l’incrocio con Qualcuno, sia mandare avanti lui, o mettermi sul lato opposto a quello da cui arrivano le auto, di modo che se una dovesse sfrecciare sulla carreggiata travolga prima o, meglio, solo lui. In fondo, chi non ha mai pensato di trarre un qualche vantaggio da una disgrazia come la morte del proprio compagno di passeggiate? E chi ci dice che magari proprio quel giorno costui non abbia compilato un testamento a nostro favore? Forse in ciò consiste la differenza tra ottimisti e pessimisti, chissà.

Ma torniamo all’incrocio. L’unica ragione valida per cui uno voglia attraversare lì, se non è tanto sfortunato da abitarci, è che dall’altra parte c’è una delle librerie dell’usato più belle e economiche di Roma.

questa

Un giorno ci ho portato un mio amico, e mentre aspettavamo che il semaforo assumesse un colore inequivocabile e io cercavo di mettermi alla sua sinistra senza spiegargli la natura di quelle manovre lui, con mia grande sorpresa, non solo conosceva già la pericolosità del tutto (persino il problema del riverbero ecc.), ma mi fa: «ah, ma lo sai che un mio amico ha scritto un romanzo ambientato qui? Su ste strisce? Parla di uno che ci muore». Io mi sorpresi molto, diedi un occhio alla strada, feci un paio di finte tattiche, lui mise un piede in carreggiata, io gli andai dietro, e alla fine attraversammo incolumi.

Il libro me lo sono procurato subito.

Sergio Garufi, Il nome giusto, Ponte alle Grazie

Parla davvero di uno che muore investito da un’auto proprio qui, subito dopo essere uscito dalla libreria, con una grazia ironica molto rara. Una delle ironie consiste nel fatto che la morte arriva sulle strisce in modo accidentale, in un momento di ritrovato amore per la vita da parte del protagonista, che fino a poco prima stava pensando di suicidarsi. Ahaha.

La storia parte dal momento di questa morte, col corpo steso a terra semicosciente e il capannello di soliti curiosi (ecco: uno dei motivi per cui non voglio morire, a parte che è una cosa che fanno tutti, come, chessò, le vacanze a Ibiza, è la timidezza) e va a ritroso dentro la sua vita prima di quel momento, per tornare al suo presente di fantasma, che per gli altri è la vita.

Si dà il caso che dopo la sua morte i parenti vendano i suoi amati libri, «la mia autobiografia, composta di tanti frammenti di me stesso», alla libreria dell’usato dall’altra parte della strada. Può capitare, per estremo umorismo della vita. A quel punto è irresistibile la tentazione di scoprire, con morbosa curiosità, in quali mani e in quali case andranno a finire.

Tra i libri del morto, c’è una preziosa copia delle Bagatelle per un massacro. Un giorno una donna un po’ così, che non diresti mai che legga Céline, entra e lo compra; il protagonista la segue, e scopre infatti che è un regalo per un famoso politico panzone e corrotto che, si presume, lo terrà in salotto per questioni di mero prestigio sociale.

IMG_92531.jpg

Esiste davvero!

Il che fa pensare. Io, che ho firmato il consenso alla donazione degli organi con meno dubbi di quando ho fatto la tessera Sephora, non so se sopravviverei, una volta morta, al fatto che qualcuno si prenda questo

No!

O questo

Sì, certo, come no

Ho voluto conoscere Sergio Garufi, e dopo una ventina di minuti passati a considerare con lui quanto sia effettivamente pericoloso quell’incrocio, gli ho chiesto due cose: la prima è come possa venire in mente a qualcuno di regalare Bagatelle per un massacro, per lo più a un(‘) amante, visto che c’è scritta questa cosa qua

«Bidet lirico»

Mi ha detto:

Bagatelle per un massacro mi fu regalato da una fidanzata olandese, che ovviamente conosceva la mia passione per Céline e per quel libro maledetto, che è proibito stampare per espresso divieto della vedova dell’autore. Bagatelle è un libro antisemita e io non lo sono, contiene la più feroce invettiva contro l’amore romantico che sia mai stata scritta e io in fondo sono un sentimentale (un cinico sentimentale).

Non solo, lo stesso gesto di regalarmelo voleva essere un gesto amoroso. Allora che cosa mi diceva quella fidanzata olandese regalandomi quel libro? Io credo volesse dirmi che ero il suo Céline. Per tutto il mondo io ero un anonimo arredatore di provincia, ma ai suoi occhi io ero un grande scrittore come Céline. Dovevo solo dimostrarlo, perché fino ad allora non avevo mai scritto nulla, mi ero limitato a qualche recensione in rete, sebbene coltivassi il sogno di cimentarmi prima o poi con un romanzo. Lo feci dieci anni dopo che ci eravamo lasciati, grazie all’incoraggiamento della mia attuale compagna, perché forse i grandi sogni individuali si compiono solo se c’è qualcuno a sostenerci, a credere in quel sogno più ancora di chi ha il compito di realizzarlo.

La seconda cosa che gli ho chiesto è se era giusta la mia sensazione che per lui la parola feticismo applicata ai libri avesse una connotazione negativa.

Con la parola feticismo neanche il vocabolario va tanto per il sottile. L’accezione negativa è quasi scontata: le deriva dall’eccesso, perché di culto o adorazione eccessiva si tratta. Per quanto riguarda i libri il feticismo poi lo trovo particolarmente riprovevole, in quanto trascura il contenuto. I bibliofili arrivano addirittura al punto di non aprire i libri che presentano le pagine unite per non rovinarli. Io non lo sono mai stato. Per me i libri sono strumenti di consultazione, compresi i più preziosi cataloghi d’arte, sui quali non esito a fare orecchiette e sottolineature nel caso abbia letto qualcosa di interessante. Difatti non possiedo libri preziosi, tranne un paio di Céline che mi furono regalati.

Ci sono anche i feticci culturali, quelli che diventano totem anche se sono svincolati da qualsiasi sentimento del libro, da tutto l’amore per il suo contenuto.

Sì, il feticismo non appartiene solo a colti bibliofili. In un certo  senso è la malattia letteraria dei nostri tempi, per la quale si vendono dei libri che non hanno neppure bisogno di essere letti perché rappresentano un talismano, una moda o un certificato di buona condotta. Penso ai cataloghi d’arte acquistati e riposti subito dopo in bella vista sul tavolino del salotto buono come testimonianza della visita alla mostra. E penso a certi best seller “impegnati”, come Gomorra, quasi che chi possedesse quel libro avesse contribuito personalmente alla lotta alla camorra. La letteratura ridotta a lenocinio è conseguenza del feticismo verso l’oggetto libro. Io, amando Hans Robert Jauss e l’estetica della ricezione, penso che un libro in sé e per sé non sia niente, giusto un solido, un volume che occupa dello spazio, carta e inchiostro, e che viva unicamente nel commercio col lettore, quando viene aperto e letto.

Le vicende, e persino i flashback, del libro, sono percorsi da questa nostalgia per qualcosa che non si è perso, ma che ci ha perso, irrimediabilmente: la diaspora dei nostri libri è una beffa, un’illusione di sopravvivenza, anche se Sergio intravede una redenzione delicata per la quale io non sono pronta. Si dovrebbe fare in modo di disporre l’eredità dei propri libri in modo oculato e personalizzato, con un testamento «in apparenza strano, logico in fatto», come quello del Beniamino Venarvaghi di Accoppiamenti giudiziosi di Gadda. Per chi, come me, ha evitato tutta la vita che un libro restasse fuori dal suo posto per più di 2 mesi – alcuni li considero persi solo fino a quando non mi darò al brigantaggio – e per chi, soprattutto, non possiede altre sostanze, una biblioteca abbandonata o peggio distrutta e smembrata è un bel casino.

Anche io vorrei pensare che sia bello che i libri ci sopravvivano, che appartengano ad altri dopo di noi, ecc. Riconosco altresì il fascino dell’espressione «la proprietà è un furto», e sono molto grata al signor (forse Onorevole: ho fatto delle ricerche)

per avermi "lasciato" questo.

Allo stesso tempo, però, credo sia giusto che, se uno lo vuole, i suoi libri vengano bruciati con lui. In ogni caso, in omaggio a certi libri sarebbe più opportuno non morire.

 

PS
Vi sconsiglio, non foss’altro che per ragioni meramente statistiche, di attraversare l’incrocio in compagnia mia o di Sergio. Non ci frega nessuno, ormai.

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Daniela Ranieri

Daniela Ranieri vive a  Roma, anche se si domanda perché ciò dovrebbe avere importanza in questa sede. Ha fatto reportage e documentari per la tv. Ha fatto anche la content manager, per dire. Vende una Olivetti del '79, quasi  nuova. Crede che prendere la carnitina senza allenarsi faccia bene uguale. Ha pubblicato il pamphlet satirico "Aristodem. Discorso sui nuovi radical chic" e il romanzo "Tutto cospira a tacere di noi" (entrambi Ponte alle Grazie) 

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