Ricordati il latte. Ospite: Christian Raimo
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Ricordati il latte. Ospite: Christian Raimo

Uno dei tabù della letteratura contemporanea, soprattutto di quella in lingua italiana, è l’incapacità di affrontare il quotidiano senza usare uno stile a) quotidiano b) antiquotidiano. Sembra che le uniche soluzioni siano: a) mettere la prosa a disposizione del …Leggi tutto

 

Uno dei tabù della letteratura contemporanea, soprattutto di quella in lingua italiana, è l’incapacità di affrontare il quotidiano senza usare uno stile a) quotidiano b) antiquotidiano. Sembra che le uniche soluzioni siano:

a) mettere la prosa a disposizione del prosaico: imitare la parlata, i modi, i gesti, le vicende dei soggetti che si ritiene possano (debbano) rappresentare il quotidiano meglio di noi, come se in fondo Noi non avessimo pieno diritto al quotidiano, o piuttosto come se lui non avesse diritto ad esercitare la sua deprecabile volgarità su di noi, che infatti preferiamo (pfiu!) scriverne:

un fruttarolo di Ostiense assume un ragazzetto di Ponte Mammolo come garzone, un giorno alcuni becchini cocainomani lo derubano, ma arriva sua mamma, diciamo la versione attualizzata-virtualizzata di Anna Magnani, a salvarlo, solo che quando tornano a casa lei si mette a chattare con alcuni diciottenni della Magliana a cui scrive Ki 6?!?, tutto perché il marito l’ha lasciata per una trentenne precaria che si ribella al capo scopandoselo, la moglie del capo li scopre e si vendica scopando nel cesso di una discoteca di Rimini e poi si candida alle regionali e le vince; la casalinga si sposa col fruttarolo, ma poi lo lascia, perché lui è cinico, anche se essendo una casalinga non dice “cinico”: è l’autore che dice «cinico» per farci capire;

b) rovesciare la banalità del bene-o-male quotidiano nel suo fantastico-allegorico-morale complementare: tolkienizzare la nonna, sviluppare depressioni post-aborto, parodiare il bestseller, criticare la ricchezza, né dal basso né dall’alto ma di lato:

un ex militante di Prima Linea ora convinto architetto passa una sera a sniffare sacchi di coca col chirurgo famoso che l’indomani dovrà mettere le mani nel cervelletto di suo figlio ma non lui lo sa perché la moglie, con cui ha rotto, si vede col chirurgo e gli tiene nascosto tutto perché capisce il pericolo psicologico del sapere come totalità, finché una sera di due anni dopo, mentre stanno evocando il fantasma di Sturzo nella stessa stanza in cui uno scarafaggio si è trasformato in uomo, il chirurgo che nel frattempo è diventato donna gli rivela la Verità, e la moglie/marito dice a tutti di aspettare un bambino che però tutti cresceranno insieme, da persone laiche che volevano abortire (ma da sinistra) però poi hanno letto il racconto di Cerami sul Sole e ci hanno ripensato.

Ecco. Per questo ero impaurita, quando, anni fa, una persona di cui mi fido molto mi prestò il libro con la mia parola preferita  come titolo. Ci siamo, ho pensato: un racconto con atmosfere à la Bigas Luna ambientato in una fattoria, con due donne appena uscite da una clinica psichiatrica che si contendono l’amore di una capra, ma tutto in un senso molto post-faulkneriano, post-fallico e soprattutto post-occidentale, infatti siamo in un’Anatolia che ricorda *criticamente* alcuni tratti della Casilina.

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E invece, la scrittura di Christian Raimo è il contrario di tutto questo. Naviga con un perfezionismo naturale contro le tue ambizioni di lettore che-si-vuole-identificare, e afferma il suo canone. Non pesca nel fantastico, ma in quella sacca leggermente nascosta, e infinitamente più perturbante, del normale patologico. Non altera: trasforma. Anche quando somigli a uno dei suoi personaggi, la scrittura rende le sue vicende interessanti, magnetiche, anche se sono le tue, perché le riveste di una cosa che può chiamarsi solo bellezza.

L’autore è rigoroso almeno quanto la sua scrittura è impudica.

Latte è un’affermazione stabile, che ti costringe a partire da lei (lui). Ti dice: ti pare che il quotidiano sia una terra desolata, e la vita – con gli affetti e i lutti e l’amore e la tv e tuo padre con cui non parli e gli ospedali – un deserto di tenebre ridicolmente malvagie? Mh.

Io non lo degrado per fartelo criticamente vedere, e non lo nobilito (degradandolo doppiamente) per dirti che la vita è bella. Tutt’altro: io sfoglio quello zero quotidiano, lo abrado. Quella cosa bianca e dura che vedi è l’osso. Ah, sì: è tuo. Ah, sì: questa si chiama analisi, diagnosi, come ti pare e, sì, fa male.

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I personaggi sono stati tutti bastonati dalla vita: traumi, depressione, solitudine, nevrosi, angoscia metropolitana. Ma l’autore li crea, e li interpreta, secondo la misura antica della pietas. Dentro la struttura tesissima di queste favole urbane, con un linguaggio fatto di primi e primissimi piani (questo è il rigore), Latte è il risultato di uno sguardo a volo radente (questa è l’impudicizia) sulle cicatrici, ma siccome non mi piace la metafora della ferita preferisco dire: sulle smagliature e le cuciture, quei confini indolenziti tra biografia e mente che la narrativa riesce solo di rado ad oltrepassare.

Insiste sulle ricorrenze e le coazioni; sull’ingannevolezza della memoria che non è omaggio al passato ma erosione del futuro; sulle compulsioni che hanno il ritmo e la drammaticità anticlimatica di un jingle pubblicitario. Prende tutte le autostrade più pericolose e più comiche della mente, e sembra una scrittura naturale, suscitata dall’urto con le cose.

Solo gli scrittori più bravi sanno evitare con un balzo gattesco sia l’autobiografismo sia l’altroraccontismo: assumere e soffrire come proprie le biografie di altri, non nati, mai vissuti, ma messi al mondo dalle risorse imprevedibili della ferocia della vita. Raccontare quella sofferenza con uno stile che non dice ad ogni riga “guarda come sono sofferto”, anzi. Produrre un linguaggio ironico che viene dal contatto con gli oggetti e gli spazi, mettere sulla carta quel suono che fanno i corpi quando si scontrano con le vicende umane.

Latte è uscito nel 2001: in un racconto la lama sfiora con profetica delicatezza (e forse pudore) quella smagliatura che è diventata, questa sì, ferita: i disastri delle manifestazioni dei no-global-popolo-di-Seattle o come si sarebbero ancora potuti chiamare a quel tempo, riflettono la tragedia personale dei tre personaggi coinvolti: amore, tradimento, amicizia, convivenza, ancora ideali e sentimenti abrasi.

Al centro della soluzione opaca e esatta di Latte, ho trovato quel gusto rotondo, ambiguo e seducente, delle mie cose preferite. E poi la consapevolezza, ad ogni sfogliamento, di quel titolo basico, compatto e pastoso, come il suono di qualcosa che viene continuamente versato, ha indubbiamente assecondato la mia compulsione.

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Ho scritto a Christian per parlare dei racconti che mi sono piaciuti di più. Non volevo fare un’intervista: abbiamo preferito provare a fare una specie di laboratorio di ogni racconto, centrato su scrittura e trama: qualcosa a metà tra tecnica e nevrosi.

 

 

7. latte

IO: latte è magnifico e terribile. Nella forma ingannevolmente “ a flusso” del poema, è un affondo tortile, riga su riga, dentro una sorta di fibra della superficie; assumendo (e costringendo lo sguardo a) il ritmo delle spirali dello sciroppo alla menta dentro il latte, è un gorgo lento; è una biopsia delle mattonelle, delle cose fisiche e dei nodi (tarli?) della mente. È uno sfogliamento a carne viva di progressivi stati mentali e spaziali: la donna dentro la cui testa e casa entri è azzannata sia dal suo interno, come costruzione di una soggettività od opera dalla famiglia, sia da quella che Gadda chiama la «insospettabile ferocia degli oggetti» che abita, e che è, la casa.

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Il poema è in terza persona, e questo davvero è un esercizio del limite: è difficile raccontare il delirio senza annullarsi in esso. Ma proprio per questo lo rendi, questo delirio, più capzioso, contorto, e insieme capace di ispirare una specie molto voyeuristica di tenerezza. Non ci salviamo dall’essere fatti in queste pieghe, dalla decisione di dormire o no, di lavarci i denti o no, dalla tirannia delle metafore (stare dentro o fuori di esse?), dall’impossibilità di essere neutrali, dalla disposizione dei numeri. Non si salva niente dal dolore di esserci contemporaneo.

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CHRISTIAN: Le intenzioni di allora si mischiano alle interpretazioni di oggi. Con latte ambivo a scrivere un’ora di pensieri di una persona depressa, o meglio di una donna depressa. Volevo capire cosa succedeva in un essere così diverso da me, con cui spesso avevo a che fare. Dire il vuoto mi è sempre sembrato affascinante e complicato: prendi Ottiero Ottieri con il suo “pensiero ossessivo che si nutre di sé”. Una forma della depressione è aver presente tutto, come una consapevolezza semantica totale che non porta a nessun tipo di pragmatismo né di empatia. E poi c’erano le case, queste gabbie domestiche dove abbiamo passato la nostra infanzia e la nostra adolescenza e poi certo anche molto del resto della nostra vita. Questo ritmo del pensiero circolare volevo renderlo attraverso un vorticare poetico. Mi sembrava che ci fosse una sorta di radiazione di fondo cantilenante che accade nella nostra testa e che ci lascia un minino di sollievo rispetto a quel rimuginio terribile che è il modo in cui si manifesta il pensiero.

 

1. ricorrenze

- l’ossessione è la lealtà quando viene protatta alle estreme conseguenze –

IO: il mondo è quel posto dove può succedere che stai andando da Potenza a Roma, nel 1986, con tuo padre tua madre e tuo fratello gemello. Succede che all’autogrill tuo fratello scende a comprare – biscotti tramezzini. Tu resti in macchina a leggere. Tuo fratello non torna, perché è stato ammazzato: un rapinatore, nel minimarket dell’autogrill. Le sue ultime parole, dicono, sono state: E che ca. Tu leggerai una pagina e mezza ancora, tra la morte di tuo fratello e il momento in cui qualcuno viene verso la macchina e dice e racconta urlando quello che è successo. L’ultima parola che leggi è: caramellato. Buffo, perché voi siete gemelli, e tu non ha sentito dolore, nessuna morte, niente. Anni dopo, stai aspettando la telefonata del rapinatore. Devi parlargli, capire perché quello sparo. Anni dopo, non hai più strati: abraso, dal rapporto con Aura, che era la fidanzata di Davide in vita, e dal senso di ultimità delle parole. Può accadere che ci trasformiamo, nel tempo, in copie viva, differenti ma ripetitive, dei nostri ricordi.

La differenza sta tutta tra essere morti e vivi, ma è proprio questa sottolineatura della differenza ad annullarla, come ne I morti di Joyce. I fantasmi esistono in noi, e le loro parole foto sorrisi facce sono un riscatto da offrire in pasto al dolore. La memoria è feroce perché è consolatoria. Per te le parole – i ricordi – sono feroci? E la loro scrittura è clemente o ancora più snervante? Hai l’ossessione di stare sempre a leggere quella pagina e mezza?

CHRISTIAN: Questo racconto credo partisse dalla constatazione dall’idea di scrivere qualcosa sulla linea d’ombra per cui scegliersi un destino vuol dire rinunciare all’altro. L’angoscia della libertà di Kierkegaard. Un gemello è qualcuno che è complementare a te. Poi quella parte, quella complementarità ti abbandona. Tu sei una parte e non tutto. Un androgino diviso a metà, come nel mito platonico. A quel punto vuoi capire dove è che si è prodotto il danno, cos’è che si è incrinato. E tutto ti sembra poter essere profetico. Quante volte i nostri pensieri iniziano con E se avessi _______? Quel tempo immobile prima che la realtà manifesti tutta la sua ferocia, era per me allora il tempo della letteratura: una specie di mondo incantato, un anno del pensiero magico. Non mi è mai piaciuto che le cose cambiassero, credo, e allora mi piaceva ancora meno. La precarietà lavorativa che è stato un fenomeno recente da un punto di vista emotivo era stata anticipata da quella generazione X, malinconica, immobilizzata, in una zona temporaneamente autonoma sentimentale che sembrava l’unica protezione possibile.

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2. il cuore colpito

- e a queste condizioni, quelle in cui la moralità autoritaria della chiarezza seppellisce tutto il resto, era difficile che restassi innamorata –

IO: A parlare è Francesca, call-centerista che ha la fobia di rispondere al telefono; sta andando in ospedale perché il padre ha avuto un infarto. La sta accompagnando Giovanni, il suo diciamo fidanzato che ha minacciato di suicidarsi, e non l’ha fatto. Ora Giovanni è uno qualunque, «di nuovo mortale e non morto». La vita è tornata piatta, priva di ambiguità. L’ospedale – la vista di quasi morti – le suscita l’ossessione ridicola delle frasi fatte sul cuore: un colpo al cuore, parlare col cuore in mano, la morte nel cuore, ridere di cuore, il cuore nella giungla… Qui la tua scrittura produce quella tensione che collega l’assurdo col quotidiano, contemporaneamente patetica e priva di pathos; sveli la natura terroristica del linguaggio, che sull’ossessivo agisce con la sua malvagia ilarità; se il quotidiano è banale, allora il trauma è banale.

CHRISTIAN: Ero più cinico, allora, o meglio più incauto rispetto al dolore. Non avevo avuto lutti importanti. E non comprendevo questo sentimento che con gli anni mi sarebbe stato chiarissimo: l’invidia per chi ha vissuto, per chi vive, per chi ha avuto la possibilità di decidere del proprio destino. Era anche questo un sentimento profetico, di odio nei confronti delle generazioni precedenti, che trovavo allora come adesso spesso protettive, ingenerose e moraliste. In quegli anni credo di aver sviluppato una specie di estetica della sincerità. La malattia, il sesso, la violenza, la patologia mentale, tutto ciò che mostrava gli esseri umani nella loro veste più sincera, mi attraeva, e mi sembrava – assurdamente – anche un’arma politica. Pensavo, penso ancora al potere performativo del linguaggio.

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3. proprio un altro tipo di dolore

- riusciva come a intuire una falsa entropia del mondo –

IO: Andrea Idem è un portento, un prodigio. Mezzo mago, mezzo poeta e comico, fa morire la gente dal ridere con spettacoli del suo mondo distorto e malinconico.  Anche qui, c’è la geometria asfissiante del linguaggio comune, e il candore deviante del folle che pensa che nel passaggio delle nuvole ci sia una ricorrenza come in quello delle comete, o che esistono paesi dove tutti si chiamano Enterogermina.

È giusto dire che questo di un altro tipo di dolore è il racconto di un dolore giusto? «Mi sento – dice Idem – hai presente il cuore di un foglio? Cioè né il davanti né il retro, non so come dire». Hai voluto raccontare la adimensionalità del dolore, cioè la sua qualità più inaccettabile, incorporea, o meglio non incorporata, asociale?

CHRISTIAN: Ti confesso delle cose un po’ impudiche, ma visto che ho fatto quest’elogio della sincerità, provo a non tirarmi indietro. A vent’anni pensavo fare il prete (ho fatto due anni e passa di discernimento vocazionale), il cabarettista (ho fatto un sacco di serate con un gruppo di amici), il vj (ho lavorato per un po’ a Telepiù), lo scrittore certo, il politico. Volevo che le parole facessero effetto, subito, anche su di me. Una sera, ti racconto un episodio, andai a cena con mio padre e uno suo collaboratore che aveva più o meno la mia età. A metà cena mio padre disse a questo mio coetaneo sistemato che io avrei voluto fare il giornalista. Odiai mio padre: che razza di mestiere ipocrita aveva in testa per me! Io volevo essere come Andy Kaufman, o San Francesco.

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4. giovanni gabrini impilota

- Intanto lui, asimmetrico a se stesso, si riaggiustò la sua posizione sul letto disfatto, quasi attendendo il secondo tempo di un’esecuzione -

IO: Questo è il tuo racconto più bello. È quello in cui con un linguaggio libero, elasticissimo, ma rigoroso, crei un mondo plausibile fondato da regole assurde, da immagini fasulle; è un racconto gaddiano, nel linguaggio, e nella capacità di sfibrare la realtà facendone emergere il nervo, che è angoscioso, ridicolo, ossessivo

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Più esplicito di così circa il destino di essere linguisticamente, relazionalmente avvitati rispetto al mondo non potevi essere. Persino la storia degli anni di piombo finisce triturata dentro l’immagine televisiva, e quello che ne esce è un impasto ormonizzato e disgustoso. Resta un nucleo di irriducibilità, nel terrorista che rifiuta di farsi liberare perfinta-davvero a beneficio delle telecamere.

CHRISTIAN: Avevo letto Fenoglio e mi chiedevo: dove è la linea gotica? Avevo letto Fenoglio e mi chiedevo: come si fa a possedere una lingua così depurata dalla compromissione del linguaggio pubblicitario che ci invade? Avevo pensato che la televisione fosse quel mondo. E avevo pensato a questa situazione assurda di un ragazzo che per racimolare quattro soldi per una famiglia precaria finge di essere scomparso a Chi l’ha visto. Anche qui torna la mia ossessione per la sincerità. Ma sono cresciuto negli anni dei Milli Vanilli, di Ben Johnson, di Pantani, dell’Aids, di Chernobyl: i sentimenti non erano più naturali, il sesso, respirare… Ho pensato a cosa poteva significare la Resistenza oggi. Una forma di boicottaggio del mondo, credo.

 

5. Midsummer night blues

- Sembro un pupo siciliano che si è slegato e parla come Felice Caccamo, penso intensamente a Kafka, neanche fossi Wonder Woman-Gregor Samsa, del resto qui è tutto un ibrido stonato, una scena da discount, tipo i film mezzi cartoni giapponesi, o certe storie-cuscinetto di Topolino -

Sempre in quel mondo in cui resti vivo a copiare tuo fratello ammazzato, può capitare di assistere a un pestaggio dalla finestra e di finire in un commissariato di borgata, ad alternare parvenza di equilibrio e posa da film, risposte da ribelle da strapazzo e ritornelli ossessivi, tutto in un’atmosfera di estrema inadeguatezza di noi al contesto e viceversa. Come se la realtà non fosse mai all’altezza della situazione.

CHRISTIAN: Amo narrativamente gli anticlimax: l’imbarazzo, l’inadeguatezza. Per questo ho sempre cercato di sviluppare un registro di understatement che riuscisse a tenere insieme il senso del tragico e quello del comico, gli eroismi di chi deve telefonare a zio per farsi aiutare. La commedia all’italiana, certo. Cassavetes, certo. Saul Bellow, certo. E i Vangeli, quanta assurdità c’è in uno che predica con dodici scagnozzi malandati che lo seguono e non se lo fila nessuno. Quanto umorismo all’inglese c’è nei botta e risposta con Pilato, per dire. Quanto ribellismo nei confronti della madre alle nozze di Cana.

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Daniela Ranieri

Daniela Ranieri vive a  Roma, anche se si domanda perché ciò dovrebbe avere importanza in questa sede. Ha fatto reportage e documentari per la tv. Ha fatto anche la content manager, per dire. Vende una Olivetti del '79, quasi  nuova. Crede che prendere la carnitina senza allenarsi faccia bene uguale. Ha pubblicato il pamphlet satirico "Aristodem. Discorso sui nuovi radical chic" e il romanzo "Tutto cospira a tacere di noi" (entrambi Ponte alle Grazie) 

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