Queste sono le ricchezze dei poveri: ospite Andrea Pomella
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Queste sono le ricchezze dei poveri: ospite Andrea Pomella

La regola generale è: se non hai mai preso il 112 non sei un vero povero. Finché sali sul 64 c’è ancora la possibilità che tu sia un turista, un amante dell’arte o un maniaco sessuale, ma il 112 …Leggi tutto


Un mendicante e Re Giorgio V, 1920

La regola generale è: se non hai mai preso il 112 non sei un vero povero. Finché sali sul 64 c’è ancora la possibilità che tu sia un turista, un amante dell’arte o un maniaco sessuale, ma il 112 lo prendi solo per due motivi: perché abiti sulla Collatina; perché devi andare all’INPS oppure all’ufficio – diciamo – di collocamento. Entrambi i motivi sono nella mia visione delle cose legati alla disperazione, al degrado, alla miseria e in alcuni casi all’aver frequentato un liceo sulla Prenestina.

Quindi mi viene da ridere quando uno di Roma nord o di Brescia mi dice che è povero. Roma sforna poveri in continuazione e li mette a Roma Sud-Est o a Ostia. Li riconosci dal fatto che quando esce l’iPhone nuovo fanno la fila fuori l’Apple store nel centro commerciale più medio d’Europa, e quando è il loro turno si informano minuziosamente in merito al loro quinto o sesto finanziamento. Comprano tutto a rate, ma comprano tutto.

Se sei povero spesso sei colto e informato sulle cose del mondo. Hai molta pazienza, stoica perché sai cosa vuol dire “stoico”, non ti incazzi se l’autobus non arriva, sei stato già disilluso da un paio di rivoluzioni, e hai creduto per un po’ a qualche miracolo, il tempo di un Gira la ruota.

Nel frattempo nell’ufficio di collocamento del Tiburtino III (terzo) solerti impiegati poveri stanno mandando avanti la tua pratica: sei già all’ottavo mese di inoccupazione e hai maturato un’indennità tale che ti permette di essere autonomo. Povero, disoccupato, ma autonomo. Torni a casa col 112 pagando solo un’euro e cinquanta di biglietto, in mezzo ad altri poveri e poverissimi, ma sugli autobus nuovi usciti di fabbrica nel 1999 c’è la radio, e Shakira, che si chiama come tua figlia, ti mette allegria.

Apri un libro, perché i poveri leggono un sacco, soprattutto i libri in classifica, per stare al passo coi tempi, e in fondo a un recesso della tua anima la vita ti sorride. Non sei avvilito: offeso sì, ma non avvilito. Se la sera del giorno che ti sei comprato l’iPad c’è la partita, poi, sei anche un po’ felice. Autonomo, e felice. La tua voce è piena di carte revolving. Chi non vorrebbe una vita così.

La miseria ha perso la sua nobile aura romanzesca, al massimo è diventata faccenda da pochade. In genere, è quella cosa raccontata dai film di Natale: il povero che insegue il ricco e i suoi gusti, e con la complicità di commercianti e ristoratori spiritosi colonizza i luoghi dei ricchi, che scappano e vanno nei luoghi un tempo riservati ai poveri: Cortina, Costa Smeralda, Argentario invasi da ciavattari con gli occhiali a specchio comprati alla festa della parrocchia di Tor Marancia nel 1987, mentre algidi riccastri vestiti da poveri siedono ai tavoli di un baretto col cartellone dei gelati Sanson in un paesino di 3 nomi della Ciociaria o in un certo angolino della Tuscia indossando un paio di occhiali a specchio di Gucci che imitano quelli del 1987.

Il povero è volgare quanto il ricco, ma il ricco è come la tartaruga di Achille: sempre un po’ più volgare, irragiungibile, invidiabile, perfetto.

Più o meno questi sono i discorsi che faccio quando qualcuno, uno straniero dell’Eur o dei Parioli, mi viene a trovare.

Quando ho conosciuto Andrea Pomella eravamo entrambi poveri, come adesso. Un giorno di qualche mese fa volevamo bere qualcosa e fare due chiacchiere sui nostri progetti, e siccome io non esco la sera gli ho dato appuntamento di pomeriggio nel centro commerciale più medio d’Europa, dove un magazzino di mobili che imita Ikea mette a disposizione dei poveri che vogliono mettere su casa sedie, tavoli e soprattutto divani su cui provare come si metterebbero seduti se fossero ricchi, assumendo al contempo la faccia del ricco. Abbiamo scelto un divano nero e spaziosissimo; davanti a noi c’era una libreria vuota con un televisore senza spina.

«Allora», faccio a Andrea con naturalezza «che stai facendo in questo periodo?»

«Ho scritto un libro su come imparare a essere poveri ma felici», fa lui, che è simpaticissimo.

«Che è tipo come imparare a essere malati ma sani», faccio io, che non lo sono.

Ora: io e Andrea abbiamo tra i nostri libri preferiti questo

È un libro meraviglioso, unico, del Roth bravo, come amo dire io per scandalizzare l’interlocutore.

Il protagonista è un ragazzino figlio di russi emigrati a New York nei primi anni del Novecento. Parla di disperazione e miseria, che insieme sono come un marchio, un destino. Una delle frasi ricorrenti del ragazzino protagonista del libro è: «non fidarti mai», «non crederci mai».

Come può uno come Andrea Pomella, studioso dell’arte tragica di Caravaggio e di Van Gogh, lettore di grande letteratura, aver concepito una possibilità ingenua come essere contemporaneamente poveri e felici? Non mi capacitavo.

Comunque, eravamo nel posto giusto per parlarne. Eravamo circondati dall’illusione di benessere data da oggetti capaci di incarnare non tanto il bisogno (non eravamo semplicemente su un divano su cui sedere) ma un desiderio (era un divano nero! Amplissimo! Scomodossimo!), un’idea di vita. Accanto a noi c’era un tavolino di formica finta che imitava i tavolinetti delle nostre nonne, cioè riproduceva con sapienza industriale le fattezze artigianali dei tavolini vintage che si trovano nei mercatini dell’usato dove l’oggetto meno costoso è un cucchiaino di bachelite rotto inizio ‘900, rimasto in Italia mentre il suo proprietario povero e affamato, magari, emigrava negli Stati Uniti.

«Ma scusa», gli faccio io, «ma come, e Roth? Quel ragazzino che vive nella miseria e infatti si sente aggredito dalla vita? E la cara, dolce paura che il mondo ostile ci faccia sempre del male? Quali altre possibilità ci sono?»

«David dice “non fidarti di nulla. Ovunque tu guardi, non crederci mai”. Credo sia una cosa inscritta nella cultura ebraica, infatti poi Roth scrive: “Se giocavi a nascondino, non era nascondino, era qualcos’altro, qualcosa di più sinistro”. Ma è anche, sì, il sigillo che mette in chiaro cosa sia, innanzitutto, un libro come Chiamalo sonno, ossia un romanzo di formazione, il Bildungsroman in cui la maturazione del protagonista David Schearl coincide con lo spavento del mondo».

«Ah», gli faccio io ignorando un marito che prendeva le misure della Trukka. «Ma non è che abbiamo bisogno di emigrare oggi per sperimentare quello stato di infanzia protratta, di dipendenza. È vero che c’è chi sta peggio di noi, ma se non posso più neanche lamentarmi allora la situazione è davvero grave».

«Daniela» fa Andrea che è persona seria «le carovane di disperati che arrivavano a New York dall’Europa, o quelli che attraversavano l’America per raggiungere la California, apparentemente non sono tanto diversi dalle traversate del Mediterraneo, o dai flussi migratori da sud a nord di oggi. C’è una differenza però tra allora e oggi. Negli anni Trenta i poveri avevano perlomeno la speranza di un posto verso cui scappare. La globalizzazione ha globalizzato anche la povertà. Le società più ricche non garantiscono benessere per tutti, anzi offrono altre forme di povertà, a volte peggiori di quelle da cui si fugge».

«Ho capito, non c’è posto in cui possiamo scappare, finché non scappiamo dal nostro sentirci destinati alla disperazione. E comunque io voglio questo tavolino».

«Esatto», fa lui ignorandomi: «la “globalizzazione della povertà” ha abrogato la parola “speranza”.

«Eh, ma se ti ricordi Roth trasforma quel “non crederci mai” in in qualcosa che non ha nulla a che vedere col nichilismo. Alla fine del romanzo il ragazzino resta fulminato da un cavo elettrico camminando lungo la ferrovia. Come quella scossa quasi mortale segna il suo passaggio all’età adulta, così a noi ci vorrebbe qualcosa che ci faccia diventare un paese maturo, e non una specie di arena dove tutti sono nemici e ostili, come a scuola, coi valori di competizione e successo che si sono infiltrati in modo grottesco nella nostra società, no?».

«Senti, leggi il libro, poi mi dici», fa lui alzandosi dal divano educatamente, come fosse il mio.

Un po’ di settimane dopo è uscito il libro di Andrea.

Credo di avergli scritto qualcosa come

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mail, praticamente una ogni 2 pagine e mezza. Ve ne riporto qualcuna

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In fondo, sta tutto qua. Per questo noi che prendiamo il 112 ci siamo comprati l’iPod.

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Daniela Ranieri

Daniela Ranieri vive a  Roma, anche se si domanda perché ciò dovrebbe avere importanza in questa sede. Ha fatto reportage e documentari per la tv. Ha fatto anche la content manager, per dire. Vende una Olivetti del '79, quasi  nuova. Crede che prendere la carnitina senza allenarsi faccia bene uguale. Ha pubblicato il pamphlet satirico "Aristodem. Discorso sui nuovi radical chic" e il romanzo "Tutto cospira a tacere di noi" (entrambi Ponte alle Grazie) 

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