«Non ti dico nulla e ti dico tutto»: baci e saluti dai condannati a morte della Resistenza
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«Non ti dico nulla e ti dico tutto»: baci e saluti dai condannati a morte della Resistenza

10 mila lettere, di quasi altrettanti uomini e donne. Alcuni dicono tutto: nell’improvvisa loquacità della morte, spiegano, raccontano, ragionano attorno alla scelta che hanno fatto, nel tentativo di chiarire a chi è rimasto ad aspettarli l’onore racchiuso nell’inutilità di …Leggi tutto

10 mila lettere, di quasi altrettanti uomini e donne. Alcuni dicono tutto: nell’improvvisa loquacità della morte, spiegano, raccontano, ragionano attorno alla scelta che hanno fatto, nel tentativo di chiarire a chi è rimasto ad aspettarli l’onore racchiuso nell’inutilità di quell’attesa; altri scrivono a matita brevi frasi d’addio incolonnate su pezzetti di carta, o stringate indicazioni testamentarie, riducendo all’osso anche il linguaggio di quello che sta per accadere, come se fosse già in parte eroso dal “nulla a procedere”.

Professori, insegnanti di musica, impiegati, muratori, sarte, giornalisti, studenti e disoccupati poco più che adolescenti: tutti condannati a morte dopo torture e detenzioni disumane, tutti che lasciano le ultime volontà o salutano le persone della loro vita, racchiusa in 16 sacchi inviati al macero dalla burocrazia militare e recuperati da Nuto Revelli, scrittore e partigiano.

Difficile dire quali lettere siano “più belle” delle altre: tutte – nella maggior parte prevale la cosiddetta dimensione affettiva, anche se impressiona il numero di Viva l’Italia! a chiosa – si mischiano in una specie di silenzio sinfonico, nel fruscio à la Spoon River dato dall’incontro casuale delle minute biografie nello spazio di un evento storico forse fisicamente più forte, perché bestiale e senza ragione, ma umiliato nella sua banalità brutale dai sentimenti che le abitavano.

Ne ho scelta una, l’unica di queste Ultime lettere di condannati a morte e di deportati della Resistenza a non parlare della morte, nemmeno nel modo ironico e elegante in cui lo fece Spartaco Fontanot detto Paolo, di anni 22, operaio meccanico di Monfalcone: «Mio caro papà, mia cara mamma, mia cara sorella. Fra qualche minuto sarò partito per raggiungere Nerone. La mia morte non è è affatto un caso straordinario. Nessuno si turbi, nessuno pianga. Ne muoiono tanti…»; o in quello disperato e toccante di Giovanni Venturini detto Tambìa, falegname bresciano di 29 anni: «Cara mamma. Ormai sono ridotto a misera cosa, non sono più un uomo e qualche volta piango dal dolore dei miei piedi che non mi serviranno più»; né della guerra, dei fascisti o della Resistenza («La spia che mi mandò alla morte è a Bicinicco perciò rintracciala e vendicami», scrive Mario Modotti, detto Tribuno, al figlio); né di Dio («Cara mamma spero che tutto quello cheo fatto nella mia vita mi perdonerai. Ora sta tranquilla e prega il Signore tanto e tanto. Cara mamma questa è mia ultima ora speriamo che un giorno si troveremo lassù in Cielo dunque fatevi coragio»: Guido Falcaro, 18enne partigiano di Novara, poche ore prima di venire fucilato); né retrocede di fronte all’indicibile come quella di Gerardo De Angelis, 49 anni, aiutoregista avellinese: «Cara Vittoria mia, figlia mia adorata. Non ti dico nulla e ti dico tutto».

È la lettera di Odoardo Focherini, impiegato diocesano di 37 anni, sposato e padre di sette figli, scritta poco prima di venire trasferito nel campo di Flossnbürg e poi di lì a Hersbruck, dove morirà per una setticemia. Nell’agosto del ’44 era stato arrestato per aver aiutato un centinaio di ebrei a fuggire in Svizzera e portato nel lager di Gries (Bolzano), da cui scrive ai figli e ai nipoti:

15 Agosto 1944

Carissimi bambini,

come vedete questa mia lettera è proprio tutta per voi e sarà scritta in modo che dovete indovinare la città dove è stata scritta. Al mio ritorno vi sarà un premio per chi avrà indovinato. Anzitutto però vi dico che sto benissimo in salute in questa bella città di origine romana, circondata da tanti monti ricchi di colori, di boschi, di prati. Un poco più lontano si ergono al cielo delle massicce guglie di roccia, e non molto distante una catena di monti che ogni tanto prende un colore caratteristico dal quale ha preso il nome… sto dicendovi troppo, è vero, vi siete già orientati ed avete già indovinato la città? No? E allora completo un’ultima indicazione. Il colore di quella montagna ha una sua leggenda che voi conoscete, che vi ho raccontato altre volte. Ed ora basta… se no il premio devo tenerlo io non vi pare? D’accordo, a condizione che la Mamma non vi aiuti o che Olga vada a frugare fra i libri del babbo. Dovete indovinare da soli, specialmente per i più grandi è facile… anzi facilissimo ché uno o due di loro vi furono mi pare qualche anno fa.

Quale sarà il premio? Porterò con me un saccco grande grande pieno di… curiosi… pieno di… lo vedrete, e da quello seglierò. E inteso che Carla, Gianna e Paola avranno il premio anche se non avranno indovinato.
Saluti e baci a tutti

 

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Daniela Ranieri

Daniela Ranieri vive a  Roma, anche se si domanda perché ciò dovrebbe avere importanza in questa sede. Ha fatto reportage e documentari per la tv. Ha fatto anche la content manager, per dire. Vende una Olivetti del '79, quasi  nuova. Crede che prendere la carnitina senza allenarsi faccia bene uguale. Ha pubblicato il pamphlet satirico "Aristodem. Discorso sui nuovi radical chic" e il romanzo "Tutto cospira a tacere di noi" (entrambi Ponte alle Grazie) 

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