L’epica del frattemporaneo: elogio del controcampo
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L’epica del frattemporaneo: elogio del controcampo

Tra i molti torti che la vita mi ha fatto, e viceversa, annovero quello di aver frequentato a vario titolo le aule universitarie negli anni tra il 1999 e il 2007. Fu questo il periodo di maggiore fioritura di …Leggi tutto


Tra i molti torti che la vita mi ha fatto, e viceversa, annovero quello di aver frequentato a vario titolo le aule universitarie negli anni tra il 1999 e il 2007. Fu questo il periodo di maggiore fioritura di quella parte dell’arte contemporanea che esprimeva sé stessa attraverso la performance. Se qualcuno, oggi che siamo un’umanità più serena rispetto a questa (nobile) attualizzazione del teatro-rito, mi chiedesse cosa erano al tempo le performance risponderei più o meno:

c’è una nuda in una bara di plexiglass con un buco sopra, da cui un dj con la testa di capro le versa addosso sei sette chilate di vermi; intorno alla bara decine di spettatori-simulacro (attori professionisti mischiati a gente comune prelevata dal pubblico) tirano fuori la lingua e cominciano a leccare il plexiglass, personificando al contempo il desiderio antropofagico dello spettatore-reale.

Questo era lo schema base, con variazioni sul tema che potevano dipendere da fattori diversi, prima fra tutti la reperibilità dei bigattini. Poi c’era la videoarte. La videoarte era come la performance, ma molto più acida, e era giocata tutta su uno schermo. Io stessa mi sono cimentata con questa forma di espressione, perciò quello che dico lo dico con cognizione di causa e senza l’intento di deridere nessuno più di me stessa.

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Com’era un video (pardon: un’opera) di videoarte? Dopo una introduzione di 22 minuti di sola musica – a citare l’overture del Dottor Zivago ma con un L’vov sotto novalgina – e dopo un’altra decina di puro silenzio su schermo totalmente viola tranne un puntino bianco al centro che sembrava pulsare (ma non pulsava), partiva la parte parp. Il parp nell’università romana era quella cosa dove l’immagine-tempo e l’immagine-movimento si sposavano in una sintesi molto primitiva che infine esplodeva in una apoteosi di rimandi tra Cronenberg e la trattoria della Sora Lella.

Spesso performance di corpo e videoarte procedevano insieme: mentre una modella turca si lasciava colare della cera rossa sulla lingua, sullo schermo di un televisore rovesciato in fondo alla stanza si alternavano immagini dello Yom Kippur con fotogrammi isterici di te-spettatore che camminavi con una lattina di Fanta arancia rossa in mano.

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Questo video (opera), provocando il desiderio dell’immagine complementare, era il più bell’elogio del controcampo.

Bisogna avere il cuore duro per non chiedersi cosa succede fuori dall’inquadratura; che faccia fa esattamente Ingrid Bergman mentre Bogart la guarda in silenzio nella nebbia dell’aeroporto; in che posizione tengono le mani le donne quando parla Ralph Fiennes, in generale. Non parlo delle attrici, ovviamente. Non mi interessa il set cinematografico, la realtà della scena, i cavi per terra, le magliette dei tecnici. Mi interessa quella cosa falsa ma vera-nel-film che noi non vediamo ma senza immaginare la quale non esisterebbe nessuna storia.

Il controcampo, appunto.

Si regge sul montaggio, ma non si sovrappone al montaggio: restandone fuori, perché se c’è il campo non c’è il controcampo – grida la sua autonomia, ma è quel taglio che lo costruisce. Il montaggio è l’intelaiatura addosso alla quale l’immagine che non vediamo si appoggia come di schiena; è la partitura sopra la quale il controcampo si staglia come una pausa tra le note nere. Gli uccelli è il film più bello del mondo perché è tutto costruito su controcampi: presupponendo che quello che avviene fuori dallo schermo sia spaventoso, è quell’assenza di tempo infinitesimale, quel passaggio di sguardi tra attori di una stessa situazione a caricare l’inquadratura di tensione e suspense.

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Al limite, tutto il cinema è una corsa verso l’altra inquadratura, un impulso non solo a guardare dall’altra parte, ma a guardare questa parte dal punto di vista dell’altra parte.

Anche la grande letteratura polifonica si basa sul controcampo. Ma è più facile per chi negli occhi ha Giotto e il vaudeville, le Esposizioni Universali e la folla della metropoli. Nell’antichità, solo i grandi geni potevano immaginare e fare il controcampo prima del cinema.

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Daniela Ranieri

Daniela Ranieri vive a  Roma, anche se si domanda perché ciò dovrebbe avere importanza in questa sede. Ha fatto reportage e documentari per la tv. Ha fatto anche la content manager, per dire. Vende una Olivetti del '79, quasi  nuova. Crede che prendere la carnitina senza allenarsi faccia bene uguale. Ha pubblicato il pamphlet satirico "Aristodem. Discorso sui nuovi radical chic" e il romanzo "Tutto cospira a tacere di noi" (entrambi Ponte alle Grazie) 

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