Le lettere più belle di sempre – «Siamo dunque uniti ancora, nel patire de’ dolori colici»
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Le lettere più belle di sempre – «Siamo dunque uniti ancora, nel patire de’ dolori colici»

Roma è una città molto ironica, e gli intenditori sanno che la sua toponomastica rasenta la genialità delle enciclopedie fantastiche: quel misto di Illuminismo fatalista e trattoria che si respira solo in certi rioni, quell’intruglio sarcastico di …Leggi tutto

Roma è una città molto ironica, e gli intenditori sanno che la sua toponomastica rasenta la genialità delle enciclopedie fantastiche: quel misto di Illuminismo fatalista e trattoria che si respira solo in certi rioni, quell’intruglio sarcastico di solennità crociata e gloria storiografica ridimensionata dalla gradazione leggera di un vinello dei castelli che si conserva chissà per quale miracolo anche negli anfratti più degradati delle borgate, fanno la gioia dei più smaliziati abitanti dell’estate romana.

L’altro giorno, per una serie di circostanze che preferisco non spiegare, mi sono trovata in Via Voltaire. Dovete sapere che Via Voltaire è una delle strade più brutte del mondo. È una specie di budello strozzato che origina da un’appendice del più grande e importante Viale Kant (che i nativi pronunciano “Kent” a causa di una tendenza tutta romana all’ipercorrettismo anglofono mai del tutto chiarita), e sovrasta in modo del tutto irrazionale, ma reale, un cervellotico Piazzale Hegel e un desolato Viale Marx.

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C’è una pizzeria ricavata da un sottoscala tra due palazzi, in una specie di cortile di cemento che è piccolo museo di archeologia sociale: ivi sono infatti conservati esemplari di siringhe dal 1987 ad oggi, fossili di espadrillas spaiate, fibbie orfane di cinture “El Charro”, e svariate generazioni di preservativi a cui molti non nati devono rendere grazie.

Poco distante, si delinea con più sensato senso geometrico l’appendice, cioè via Benedetto Spinoza (a Baruch per fortuna è stato risparmiato di venire pronunciato in romanesco), una stradina un po’ più larga piuttosto ben frequentata, rispetto all’altra; ma la cosa più  esilarante è che Via Voltaire termina in una specie di calcolo renale, di ciste, che si chiama con inutile pomposità Viale Jean-Jacques Rousseau, la sua unica attrattiva essendo l’insegna di una scuola diSalsa&Merengue.

Voltaire ne avrebbe riso fino alle lacrime.

Rousseau, che gli divenne antipatico più dei preti e dei potenti, verso i quali invece Voltaire ha per tutta la vita provato una specie molto complessa di interesse, ridotto, grazie alla solerzia ultrafilosofica degli amministratori romani, a titolare di un suo calcoletto, di un’escrescenza.

Vi consiglio di fare questa cosa: andate in Via Voltaire e portatevi le lettere di Voltaire; poi camminate in direzione di Rosseau e leggete: «Lui scrive per scrivere, io scrivo per agire. Bisogna essere brevi e sapidi, altrimenti i ministri di Mdme de Pompadour, i funzionari e i camerieri coi libri ci fanno i bigodini». A un Rousseau che aveva molte qualità, tra cui quella della bellezza, ma che era completamente privo di ironia, Voltaire scrive a proposito dell’elogio del buon selvaggio: «A leggervi viene voglia di mettersi a quattro zampe. Tuttavia, poiché sono sessant’anni che ho perso quest’abitudine, lascio questo portamento naturale a coloro che ne sono più degni».

La metafora gastrico-toponomastica, d’altra parte, non è del tutto campata in aria. Voltaire, a scapito della sua leggerezza e del suo anelito alla ragione e alla intelligenza, era un ipocondriaco di prim’ordine. Se volete gustarvelo in tutta la sua ossessività dovete leggere queste

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La nipote è Madame Denis, che Voltaire incontra a Parigi nel 1744 e con cui inizia una corrispondenza molto intima, dai toni spesso deliziosamente indecenti, a volte estremamente sentimentali, piena di lamentele  e di ricerca di “consolazione” e di consigli, specie in merito alle sue opere.

Non passano mai due giorni senza che lui non le scriva, in italiano (la lingua dell’amore) e col tono più gentile che sia possibile a un temperamento tirannico, che «è ridotto alla disperazione», che la sua vita è «il diario di infermo», che non digerisce più niente, che si sente «vicino alla morte», (Voltaire muore a 84 anni, cioè 30 anni dopo queste parole), che è contento che anche lei stia male perché così sono «dunque uniti ancora, nel patire de’ dolori colici. Sono incolerito contro la natura che fa soffrire il vostro gentil’ corpo, ma Le perdono quando mi fa sentire il medesimo male, e mi concede alcuna somiglianza con voi».

È un momento cruciale per lui: alla corte di Versailles, dove è appena stato promosso storiografo di Luigi XV e gentiluomo di camera, vive con disagio gli onori mondani eppure cerca sempre nuove alleanze

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Qui per esempio è possibile vederlo, in giacca lilla, allo stesso tavolo col Re e con Giacomo Casanova

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Adolph von Menzel, La Tavola Rotonda

Cerca di tenere nascosto alla moglie, Madame de Châtelet, il suo nuovo legame

«Niente di più, sono colla signora che mi vede»

benché lei lo tradisca e, nel 1749, dia alla luce una bimba non sua. Questo è un momento davvero commovente e speciale, una specie di Illuminismo da camera: Voltaire assiste la moglie nel parto, che avviene con meno fatica di quanta ne sia occorsa a lui per finire la tragedia Catilina, e depone la bimba su un volume di geometria.

Quando dopo 10 giorni lei muore, lui scrive a Federico II:

«Ho perduto un amico che avevo da 25 anni, un grand’uomo che aveva il solo difetto di essere donna». E alla nipote: «Non ho perduto un’amante ma la metà di me stesso, l’anima con la quale era fatta la mia anima».

Questo dolore lacera lo schermo di arguzia e leggerezza che aveva costruito per tutta la vita, e anche le sue lettere perdono un po’ della loro gradevolissima sporcizia.

Infatti la più bella, che riporto, è del periodo precedente

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Sono stato ammalato ad Anet mia carissima, ma spero di ricuperare la mia salute con voi. Subito che ritorni, corsi alla vostra casa, per ripigliar le mie forze. Hoggi vi vedero, hoggi trovero la sola consolazione che possa addolcire l’acerbita mia vita. La natura gratificando mi del più tenero cuore s’è scordata di dar mi uno stomaco.

Non posso digerire ma posso amare. Vi amo, vi amero insino alla mia morte. Vi baccio mille volte, mia cara virtuosa. Scrivete l’italiano meglio di me. Meritate dessere aggregata all’accademia di Crusca. Il mio cuore ed il mio cazzo vi fanno i più teneri complimenti. Sta sera la vedero sicuro.

Nei commenti, casomai, riporterò a breve il contenuto della nota 2.

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Daniela Ranieri

Daniela Ranieri vive a  Roma, anche se si domanda perché ciò dovrebbe avere importanza in questa sede. Ha fatto reportage e documentari per la tv. Ha fatto anche la content manager, per dire. Vende una Olivetti del '79, quasi  nuova. Crede che prendere la carnitina senza allenarsi faccia bene uguale. Ha pubblicato il pamphlet satirico "Aristodem. Discorso sui nuovi radical chic" e il romanzo "Tutto cospira a tacere di noi" (entrambi Ponte alle Grazie) 

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