Le lettere più belle di sempre – «Mio caro Puma»
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Le lettere più belle di sempre – «Mio caro Puma»

Cosa c’è di più insano e voyeuristico che leggere di nascosto la posta di qualcuno? Poche cose. È una violazione della privacy tra le più infami, ed è anche un reato. Semplicemente, non si fa. No. Però, ecco, se il …Leggi tutto

Jan Vermeer, Donna che legge una lettera davanti alla finestra, 1657

Cosa c’è di più insano e voyeuristico che leggere di nascosto la posta di qualcuno? Poche cose. È una violazione della privacy tra le più infami, ed è anche un reato. Semplicemente, non si fa. No. Però, ecco, se il mittente e il destinatario sono morti, e se hanno avuto il torto di diventare attraverso i loro meriti patrimonio di tutta l’umanità, si può.

Tra il Settecento e la fine dell’Ottocento, per fortuna, l’Europa è piena di gente che, a cadavere ancora caldo, si mette a frugare negli scrittoi, nelle scatole, nei bauli e persino dietro i fondi degli armadi di gente famosa, artisti, musicisti, scrittori.

È grazie a una di queste persone solerti e curiose, ad esempio, se oggi sappiamo che Mozart, il genio che ha donato al mondo (e anche allo spazio fuori dal sistema solare) la grazia infinita dello spirito musicale, amava scrivere a sua cugina lettere coprolaliche di questo tenore:

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E lo sappiamo nonostante la moglie Costanze abbia evitato di pubblicarle per tutta la vita. Quindi dovremmo solo ringraziare coloro che sfidando il politicamente corretto ci hanno mostrato la faccia privata dei nostri miti, il loro – come si dice – lato umano.

Ovviamente non è così semplice. A me, sinceramente, non me ne frega niente del lato umano.

Posso leggere al massimo con simpatia incuriosita le lettere, chessò, di D’Annunzio a Natalia de Goloubeff

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Ma forse il lato umano di D’Annunzio mi interessa meno di quello (inumano?) della sua opera.

Però se leggo questa lettera di Leopardi all’amico Antonio Ranieri, per esempio

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il cuore mi fa sei giri intorno al cervello, va sulla Luna, e torna giù col senno di Orlando, di Astolfo e mio insieme.

Dice: ma è perché c’è il tuo cognome, dentro. ‘Mbè? Ti pare poco?

È ovvio che che il piacere superiore mi viene solo dalla lettura degli epistolari di gente verso la quale provo un sentimento che va dall’interesse all’amore cioè all’ossessione, e che ciò che cerco non è la gratificazione di venire a conoscenza di un aspetto prude o imbarazzante della vita privata delle grandi personalità che le ridimensioni.

Per far capire quanto non non mi interessi il pettegolezzo semplificante, o il quadretto che si staglia dal buco della serratura, dirò che a me interessano anche le lettere dei gerarchi nazisti. Non mi interessa però dire: “però, vedi, anche Hitler aveva paura del dentista. Buffo“. Quello che cerco è altro: una vicinanza, una conoscenza, e un ingresso privilegiato alla storia, collettiva e privata, del proprietario delle lettere. Nel caso degli scrittori, voglio un accesso alla loro opera e al loro pensiero, anche nel dettaglio biografico più sciocco o raccapricciante.

Poi mi piace fare tutti quei giochini con le cronologie, per stabilire per esempio quale tipo di verdura bisogna mangiare per scrivere un capolavoro

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Deliziose e piene di cavoli, verze, pomodori

o chi c’era col personaggio in questione quel dato pomeriggio, per poi andarmi a vedere le lettere di “questo che c’era” e scoprire se ha scritto qualcosa relativamente a quel pomeriggio

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Potrei descrivere questo genere di curiosità solo parlando della passione morbosa e (quasi) criminosa del protagonista del Carteggio Aspern di Henry James nei confronti delle lettere del suo amato poeta di nome Aspern, appunto (che poi probabilmente nella realtà è Shelley), ma ci vorrebbe troppo e lo tengo per un altro post.

Però a volte si dà anche il caso di lettere che hanno un valore letterario al di là dell’interesse patologico che si può avere nei confronti dei mittenti e dei destinatari, e con una lettera di questo tipo chiudo questo post e apro questa nuova rubrica.

Sono le lettere che Erich Maria Remarque, l’autore di Niente di nuovo sul fronte occidentale, scrive a Marlene Dietrich. Quelle di lei sono andate perse, o meglio sono state bruciate dalla terza moglie di Remarque, sposata nel ’58.

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Archinto ed

La chiama «Puma», e da un certo punto in poi prende a chiudere le sue lettere come Goethe: «Amami!».

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Da lei a lui, bozza di telegramma

Il loro rapporto, più che ventennale, è reso difficile dal carattere di lei, dall’impotenza di lui, e dalla distanza geografica. In questo momento, Remarque è a Porto Ronco, sul Lago Maggiore, e lei è a Beverly Hills. L’anno non è di più tranquilli (è il 1939), e i due esuli dalla Germania nazista si sono appena rinfacciati la reciproca morbosità: Marlene è stanca del fatto che lui per conquistarla «faccia il bambino», espressione che purtroppo non è una iperbole: Erich Maria si trasforma nel bambino Alfred, di anni 8, e con una grafia infantile cerca di recuperare la tenerezza che lei gli mostrava nei primi tempi, chiamandola «Zia Lena».

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In più, lui vive in solitudine e parla ai cani, soffre di sciatica, e è sempre più  ossessionato da lei, tanto che medita di «sbarazzarsene», di certo metaforicamente.

Ma poi arriva questa lettera

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che non solo è priva di smancerie, ma contraddice lo stato di subalternità, non con l’espressione di uno sciocco dominio, ma con l’intenzione amorevole di riparare ai torti che gli altri uomini le hanno inflitto. La trascrivo nelle sue parti più belle

Quante cose ho da riparare! Eri davvero molto diversa da un’eterna infermiera? Quanto hai atteso ogni volta quel pochissimo da loro, quanto te ne sei occupata, quanto eri disposta a fare per loro! (…) quanto hai fatto di loro, sempre, molto più di quel che fossero! Non hai fatto altro che ingrandire gli altri (…). Di un cervello vasto (…), hai fatto un cervello creativo, di un talento un genio, sebbene queste siano antitesi, di una pianta carnivora hai fatto un albero carico di frutti (…): Che ti abbiano amato, bene – ma chi ti ha dato di più, chi ti ha fatto risplendere, chi era sempre un tratto più avanti di te, anche se tu balzavi ancora più in alto, Puma? (…)

Tu aperta, che con le tue labbra e i tuoi occhi e il tuo corpo avresti potuto sommuovere, agitare e guidare attraverso i labirinti e i segreti del sangue, quanto spesso hai dovuto tacere, perché non ti comprendevano e rapportavano troppo meschinamente ogni cosa a se stessi. Tu ti sei data loro in pasto, ma grazie a Dio non avevano zanne sufficienti per lacerarti. Neanche questo! Neanche abbastanza cattivi erano. Con te si sono rotti le zanne, e ora sono buoni e ragionevoli, e in fondo rassegnati, benché la ritengano saggezza.

 

Colonna sonora
Marlene Dietrich – Where Have All The Flowers Gone?

 

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Daniela Ranieri

Daniela Ranieri vive a  Roma, anche se si domanda perché ciò dovrebbe avere importanza in questa sede. Ha fatto reportage e documentari per la tv. Ha fatto anche la content manager, per dire. Vende una Olivetti del '79, quasi  nuova. Crede che prendere la carnitina senza allenarsi faccia bene uguale. Ha pubblicato il pamphlet satirico "Aristodem. Discorso sui nuovi radical chic" e il romanzo "Tutto cospira a tacere di noi" (entrambi Ponte alle Grazie) 

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