La vertigine del sapone
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La vertigine del sapone

Io faccio parte di una società segreta e silenziosa i cui membri non si riuniscono mai, e anzi condividono la propria passione a distanza e con una certa riservatezza che sfiora la gelosia. Si tratta di una “comunità inconfessabile”, …Leggi tutto

 

Io faccio parte di una società segreta e silenziosa i cui membri non si riuniscono mai, e anzi condividono la propria passione a distanza e con una certa riservatezza che sfiora la gelosia. Si tratta di una “comunità inconfessabile”, nel senso che il sentimento che lega i suoi adepti somiglia molto di più alla correità in un delitto perfetto che non a una titolarità o all’appartenza a un club esclusivo.

Esclusivi, di fatto, lo siamo, ma è la conformazione stessa della nostra società a esigerlo, non tanto perché temiamo che qualcuno di esterno possa minarne la basi, ma perché manca lo strumento principale di pubblicità e di condivisione della sua stessa (chiedo scusa) mission, e cioè il linguaggio per comunicarne i principi e le regole a chi ne è fuori.

Mi rendo anche conto che con questo (chiedo scusa) coming out che è di fatto una confessione rischio di mettere in crisi lo statuto della segretezza mia e degli altri membri, ma vorrei coraggiosamente tentare un’apertura, anche a beneficio di chi soffre della propria condizione di isolamento e di silenzio.

Si tratta della società di coloro che rubano il sapone negli alberghi. A dire il vero, io non rubo solo il sapone: rubo tutto ciò che si può rubare, cioè tutto ciò sottraendo il quale non incorro nel penale. Quindi, tecnicamente, non si tratta esattamente di “rubare”, essendo il furto una sottrazione illegale di qualcosa che non ci appartiene, quanto piuttosto di uno spostamento da un luogo ad un altro di un oggetto la cui presenza nell’uno o nell’altro non è rilevante.

Come tutti sappiamo, le saponette, gli shampoo, i bagnoschiuma (se vi capita di passarci, la profumeria di Piazza Piola a Milano espone in vetrina il cartello «bagnoschiumi a 1 euro»), le cuffie di cellophane, le ciabattine, insomma il courtesy kit degli alberghi è a nostra disposizione; ciò vuol dire che nessuna direzione di albergo si sognerebbe di chiedercene conto al termine del nostro soggiorno.

Ma qui si gioca la differenza tra chi fa parte della società segreta di cui vi parlo e chi invece no, e magari non ha neanche mai pensato esistesse.

Questi ultimi si limitano, di solito, a usare, cioè a consumare, la propria dotazione di saponi saponette ecc., e a lasciare inutilizzata, e quindi a lasciare nel bagno, e quindi a non mettere nella propria valigia, la parte che resta del courtesy kit.

Ecco: noi della comunità dei rubasaponi no. Anzi, per esercitare appieno il nostro diritto-dovere di portarci via i campioncini, e trarne al contempo il massimo vantaggio, a volte arriviamo persino a non usarne nemmeno un goccio, di modo da poterceli portare via ancora intonsi pieni e sigillati, risultato che spesso raggiungiamo portandoci da casa un minikit che provveda al caso.

Anche questo ultimo minikit personale, naturalmente, proviene da un albergo, un albergo primario, diremmo, originario, ma siccome è soggetto a usura e svuotamento, ad esso aggiungiamo di nostra mano (e a nostre spese!) la quantità di prodotto che sappiamo ci servirà: infatti massimo gusto è viaggiare con un beauty case oculatamente composto con bottigliette e scatoline che vengono riempite prima di partire, previa spesa al supermercato. Quando ciò non è possibile, provvediamo a malincuore a intaccare il deposito di bottigliette e saponi sottratti in altre occasioni, e può capitare che diretti all’Hotel Centonaufraghi di San Giovanni Valdarno, custodiamo in valigia il kit dell’Asturyas di San Benedetto del Tronto.

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*Ovviamente*, ne ho altri

Per evitare travasamenti, appesantimenti e macchinosissime manovre, col tempo ci siamo raffinati, specializzati: i saponi solidi non li usiamo, anzi li mettiamo in valigia come prima cosa, appena entriamo nel bagno; quelli liquidi li usiamo (con parsimonia) solo se la nostra scorta si rivela insufficiente (lo scopo è partire con sempre meno peso) ma poi, invece di lasciarli sul ripiano consumati a metà, li portiamo con noi, pensando a quel futuro in cui troveremo il tempo e il temperamento per travasarli, tutti, dentro un enorme dispenser in grado di accogliere le loro spirali di colori diversi, e curare insieme i nostri ospiti e la nostra igiene. Invidiamo e disprezziamo coloro che sono capaci di un gesto così privo di cuore come abbandonarli nella stanza vuota.

Noi sottrattori (ma basta usare questa parola: per la cura che abbiamo di questi oggetti direi: noi curatori, o al limite noi addizionatori, visto che accumuliamo) di saponi da bagno sappiamo di quale grave compito siamo investiti: partiamo con una riserva di bottigliette semipiene autoprodotte, torniamo con queste bottigliette vuote E con nuove bottigliette semivuote. Una volta a casa, depositiamo le nuove nel luogo a loro deputato, riempiamo di nuovo le prime e siamo pronti per altri viaggi. È un travaso geografico, altroché: uno spostamento.

È ovvio, ma lo sottolineo lo stesso, che noi non rubiamo per risparmiare (ho spiegato sopra che invece ci rimettiamo); non rubiamo per recare danno a terzi (mi sono informata: le bottigliette spesso sono omaggio di sponsor agli alberghi, che non le pagano, o se la pagano sono in grado di ammortizzarne ogni singola goccia sprecata); e non rubiamo per il piacere di rubare. Non ci piacciono i souvenir, non siamo malati del ricordo, non vogliamo fermare il tempo, ricordare l’amore che abbiamo fatto in quelle stanze, riportare alla mente l’odore del bagnoschiuma (e come potremmo, non lo usiamo) che si liberava nel bagno quando facevamo la doccia. Non li esponiamo nelle vetrinette per suscitare l’invidia della vicina che non è mai andata oltre il banco del pesce del mercato di Mentana.

Noi quei saponi li vogliamo. Questo non deve far pensare che noi rubiamo per piacere, o per lussuria.

Una componente predatoria c’è, ma non è questo il punto. In noi è assente la mania perché è assente la colpa. Questi saponi non sono nemmeno belli, anzi spesso sono – ahaha – aggressivi. Il fatto è: sono nostri, non possiamo lasciarli. E poi, sono una cosa in più.

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Ok, ma perché il sapone? Allora, ricordo ai distratti che il sapone è questa cosa perfetta e sexy qui.

Poi a nostra discolpa possiamo addurre il fatto, noi della comunità, che rubiamo anche i sassi sulle spiagge. I sassi in teoria non sono di nessuno (adesso salta fuori che sono del demanio o dello stabilimento che li “ospita”, sta’ a vedere), quindi non li sto tecnicamente rubando, se me li porto a casa.

Il legame tra la dolcezza del sapone e quella della pietra è gentilmente offerto da Francis Ponge:

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Ok, non c’entra il furto. Ma allora perché noi ci vergognamo tanto a venir fuori dal nostro silenzio? Solitamente, chi vuole nobilitare la cleptomania parla di collezionismo: «Sa» dice la svampita signora al concierge che si china a raccogliere il posacenere d’argento che le è caduto dalla tasca della valigia «io e mio marito li collezioniamo…».

Ovviamente mente, o non sa di cosa parla. Un vero collezionista non ruba: accumula. La sua ossessione è sminuita dall’atto di depredare di un oggetto un posto o un individuo: gli oggetti devono capitargli in mano, o tra i piedi, o essere trovati, o essere comprati, spesso a caro prezzo. Se ruba, lo fa non per vantaggio, ma, come il protagonista de Il Museo dell’innocenza di Pamuk, per obbedienza al proprio demone.

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«un po' di conforto»

L’accumulo, la ripetizione, la sommatoria esponenziale degli oggetti non è mai cinica: è anzi sentimentale.

Il collezionista raffinato, per come la vedo io, predilige gli oggetti di uso quotidiano, proprio per sottrarli al loro quotidiano, più ancora che le rarità, perché scioglierli dal loro luogo d’origine e d’uso li libera dalla loro prigionia di essere utili. Un libro antico o un francobollo rarissimo e prezioso, così come un Bacon autografo ritrovato in una cantina, possiedono solo la grandezza del loro oggettivo valore.

Immaginare, anzi scovare e sentire il valore supplementare (no, non la uso quella parola, perché non c’entra!) degli oggetti è dare loro un’altra possibilità.

Poniamo che queste boccettine fossero state inventariate dalla direzione dell’albergo: sarà esistita una lista, magari una griglia, un foglio Excel, in cui alle singole occorrenze, messe in colonna, dei prodotti da bagno corrispondevano nelle colonne successive voci relative al loro costo, alla destinazione delle stanze in base al numero degli ospiti, alle previsioni di esaurimento delle scorte, ecc.

Una lista molto pratica, utile, per niente poetica, per riprendere la distinzione che Eco fa qui.

Infatti, la lista non ha niente a che fare con l’organizzazione. Solo chi è vittima di una logica e di una morale del lavoro associa automaticamente la lista alla checklist.

La lista più famosa è infatti quella della spesa, stilema e grafema ridotti a barzelletta tanto sono legati al pratico, al quotidiano, alla dimenticanza, alla banalità utile del prodotto, così come lista è l’appello di scuola: assente, presente, tertium non datur.

Noi rubasaponi sappiamo che un conto è un menù, un conto è questo, e che un conto è una collezione di francobolli, altro conto questo.

Sottratte a questa lista primaria per volontà del sottrattore (addizionatore!) e inserite dentro la sua collezione privata o comunque si voglia chiamare il suo accumulo, le saponette subiscono una trasformazione: non usate, sono inutili; sottratte al loro mutismo, o al massimo al loro lavare sé stesse in docce di estranei, raccontano finalmente una storia; sono legate ai viaggi di chi le ha prese, quindi a luoghi, a giorni; trasformano a loro volta il luogo dove finiscono, perché ne fanno un panorama simile al bazar, cioè rendono l’ambiente una specie di elenco di chi lo abita, una mappa delle sue esperienze; si ribellano al loro essere merce, quindi ha gioco difficile chi prova ad assimilare questa compulsione all’accumulo capitalistico. Anzi: siamo proprio davanti a quello che Michel de Certeau chiama “bracconaggio”, un modo d’impiegare in un modo diverso prodotti imposti dall’ordine economico dominante.

Nei nostri saponi, più che la fabbrica che li ha prodotti o l’albergo che li ha comprati e che ce li rivende al pari di tutti gli altri prodotti del nostro soggiorno, c’è la fiera campionaria, o meglio la vetrina, dietro la quale si intravede la nostra storia fino a loro.

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Daniela Ranieri

Daniela Ranieri vive a  Roma, anche se si domanda perché ciò dovrebbe avere importanza in questa sede. Ha fatto reportage e documentari per la tv. Ha fatto anche la content manager, per dire. Vende una Olivetti del '79, quasi  nuova. Crede che prendere la carnitina senza allenarsi faccia bene uguale. Ha pubblicato il pamphlet satirico "Aristodem. Discorso sui nuovi radical chic" e il romanzo "Tutto cospira a tacere di noi" (entrambi Ponte alle Grazie) 

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