La nevrosi dell’uovo – Un post proteico
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La nevrosi dell’uovo – Un post proteico

Mio nonno, che ha fatto la campagna d’Africa, suddivideva le genti del mondo in due grandi insiemi: quelli che l’uovo lo mangiano crudo, e quelli che lo cuociono. Alla seconda categoria di persone attribuiva le peggiori caratteristiche, e forse anche …Leggi tutto

Mio nonno, che ha fatto la campagna d’Africa, suddivideva le genti del mondo in due grandi insiemi: quelli che l’uovo lo mangiano crudo, e quelli che lo cuociono. Alla seconda categoria di persone attribuiva le peggiori caratteristiche, e forse anche intenzioni: quelli che lo cuocevano in realtà non avevano il coraggio di mangiarlo – di berlo – crudo; erano dei deboli, dei degenerati, forse minavano alla integrità della patria, della persona umana, delle tradizioni, della genuinità della terra. Forse erano intrinsecamente cattivi, e pavidi. Effeminati. Forse erano froci. Insomma per loro nutriva una severa diffidenza, che non disdegnava di dimostrare nemmeno nei confronti di noi bambini, e persino nei miei, unica nipote femmina.

Per evitare che il degrado attaccasse le fondamenta di casa sua, aveva provveduto al fabbisogno di uova di tutti gli abitanti delle sue proprietà e degli eredi del suo codice genetico, a volte anche degli eventuali visitatori. In una gabbia sul lato sinistro del cortile, sotto il nespolo, teneva chiuse – le conto adesso, a memoria – almeno 7 galline, più un paio di galli (di cui uno litigiosissimo che riusciva sempre a scappare per strada e un giorno, cretino, è tornato in bocca a un cane).

Ora: ho letto che una gallina depone in media 300 uova all’anno, cioè quasi uno al giorno, il che vuol dire circa 5 uova a settimana. Moltiplicato per 7 fa 35. Questo vuol dire, a occhio, che nell’arco di un mese tra la sua famiglia, composta di 2 persone, e la mia, giravano qualcosa come 140 uova.

Che le rivendesse è escluso: ho anzi un ricordo vivissimo di un’azienda agricola da cui mio nonno comprava polli e galline – se non addirittura altre uova – e dove ho imparato quanto può essere ridicola la morte animale, cioè la morte.

Che le regalasse è un’ipotesi, ma percorribile il tanto che mi dimentico com’era fatto mio nonno.

È vero che mia nonna cercava di somministrarcele ogni qual volta eravamo nei paraggi, praticando un buco sulla sommità del guscio e versandocelo direttamente in bocca, oppure sbattendolo nel bicchiere con lo zucchero e versandocelo in bocca – ma noi, piccoli, quante uova potevamo mangiare?

Niente, l’unica ipotesi attendibile, consolidata da anni di ricerca e riflessione, è che mio nonno le uova se le mangiava – beveva – lui. Una trentina a settimana, abbiamo detto.

Perché vi racconto questo? Innanzitutto perché i particolari sull’infanzia e le famiglie degli altri stimolano una innegabile e intensa morbosità, e io ho molta considerazione del voyeurismo di chi mi legge.

Secondo, perché un giorno ho scoperto che mio nonno aveva qualcosa in comune con Piero di Cosimo, che come racconta Vasari mangiava solo uova. A differenza di mio nonno, le faceva bollire; «per risparmiare il fuoco, le coceva quando faceva bollir la colla», una cinquantina a botta.

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Inoltre, negli ultimi della sua vita anche mio nonno, come Piero, era capace di stare ore e ore seduto sulla sedia di plastica del cortile, a guardare le sue galline, e a bestemmiare.

Di tutte le altre caratteristiche ossessive del compulsivo pittore elencate dal Vasari era invece privo: devono aver saltato due generazioni, finendo nel mio codice genetico chissà come (forse esse, unite al consumo eccessivo di uova, si manifestano tutte insieme in una sola persona solo in presenza del talento assoluto, boh, chissà).

Al genio selvatico e ossessivo di Piero di Cosimo, e alle sue uova, Michele Mari dedica una delle operette di Fantasmagonia.

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Non è solo che il pensiero delle uova sode è confortevole e struggente (Ivan Graziani ne metteva due nel piatto di Paolina, e bastava questo per dare l’idea della solitudine della ragazza, che non a caso andava al cinema sola, in ultima fila).

A volte, nella ressa dei doveri e nelle maledette occupazioni, il pensiero della follia e dell’ebetudine, della regressione a uno stato in cui si possono cogliere nespole dall’albero e allevare contemporaneamente 7 galline e (quindi) 5 figli, è un ottimo antidoto.

Eppure io non ho in odio la metropoli, non inseguo il chilometro zero. Non mi interessa, dell’uovo, nemmeno il fatto che sia potenza, origine, simbolo, archetipo: quelle cose junghiane là. Cosa succede, dunque? Cosa mi dà tanto piacere nel pensare a 50 uova da bollire insieme alla colla e a un muro da restare a fissare per ore?

Mi interessa la carne dell’uovo. L’elemento perturbante dell’uovo, per me, a che fare col numero, con la letteratura, col latte.

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Aline Smithson, Laying Eggs

Forse per averne mangiati (bevuti) troppi, l’uovo è diventato una mia ossessione. Con gli anni, ho capito che ero in buona compagnia.

L’uovo è il feticcio perfetto per i surrealisti.

Nella Storia dell’occhio Bataille ricorre costantemente all’allegoria dell’uovo, oggetto di svariate manovre erotiche capace di incarnare nel suo pieno i riferimenti a una sessualità abissale, scandalosa, eccessiva, senza residui.

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Georges Bataille, Storia dell'occhio

Ci ha provato anche Oshima ne L’impero dei sensi a inserire un uovo in una vagina, con effetti vagamente comici (meno comici, tuttavia, di quando l’uovo non lo si fa bollire prima)

L’occhio rasoiato in Un chien andalou è in realtà un occhio di bue che pare un uovo – esattamente come la luna che infatti è un uovo. “Occhio di bue” è peraltro anche un modo di cucinare le uova.

Ah, sì: Dalì ha messo in mano ad Amanda Lear un piatto con uovo sodo spaccato a rappresentare gli occhi di Santa Lucia (cosa che a tutt’oggi può essere considerata come il suo unico merito). Vabbè, l’ha messo anche qua.

Il 21 giugno 1960, nel corso della performance Consumazione dell’arte dinamica del pubblico divorare l’arte, Piero Manzoni imprime l’impronta del suo pollice su alcune uova sode, offrendole al pubblico da mangiare.

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Foto scattata al Museo del Novecento, Milano 

Più che un feticcio l’uovo è un oggetto transizionale (“uovo” e “spermatozoo” sono le uniche cosa che non potremo mai tornare ad essere – mi viene in mente il bellissimo titolo di un libro che purtroppo non parla di uova) che assume nel corso del racconto di Bataille l’aspetto dell’occhio, dei testicoli del toro nella corrida, del sole, dell’ano – così come ciascuno di questi oggetti riflette la sua pienezza incomprensibile, come dice, più o meno, Roland Barthes nella postfazione critica all’edizione di SE).

La sua omogeneità differenziale (bianco/rosso, pienezza/vuoto, aderenza guscio/contenuto) e le corrispondenze che intrattiene coi mondi naturale e artificiale ne fanno un oggetto eterogeneo, pieno di forze.

Non a caso quei due mattacchioni di Deleuze e Guattari si inventano questa cosa dell’uovo tantrico.

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O_o

PS

Non ci giunge nessuna notizia o allusione sull’omosessualità di Piero di Cosimo dal Vasari, che invece è piuttosto esplicito, a riguardo, sul Pontormo. Del Pontormo, misantropo, nevrotico, agorafobico e solitario al pari di Piero, e in più sofferente di colite pur senza abuso di uova, e ancora di più ipocondriaco e maniaco del cibo, come risulta dai suoi Diari, vale la pena scrivere a parte.

Disclaimer: NON FATELO A CASA. Mio nonno è morto, esattamente come Piero di Cosimo.

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Daniela Ranieri

Daniela Ranieri vive a  Roma, anche se si domanda perché ciò dovrebbe avere importanza in questa sede. Ha fatto reportage e documentari per la tv. Ha fatto anche la content manager, per dire. Vende una Olivetti del '79, quasi  nuova. Crede che prendere la carnitina senza allenarsi faccia bene uguale. Ha pubblicato il pamphlet satirico "Aristodem. Discorso sui nuovi radical chic" e il romanzo "Tutto cospira a tacere di noi" (entrambi Ponte alle Grazie) 

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