Io ti dono le mie mani e tu le perdi nello spazio. Il compimento dell’amore
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Io ti dono le mie mani e tu le perdi nello spazio. Il compimento dell’amore

Quando mi trovo in mezzo a discussioni sulla presunta utilità o inutilità della cultura e degli intellettuali, ché c’è anche questo al mondo, per sostenere la (sì) superiorità dell’istruzione rispetto a tutte le altre forme di esistenza tra cui …Leggi tutto

Quando mi trovo in mezzo a discussioni sulla presunta utilità o inutilità della cultura e degli intellettuali, ché c’è anche questo al mondo, per sostenere la (sì) superiorità dell’istruzione rispetto a tutte le altre forme di esistenza tra cui il tifare Lazio, tutto quello che riesco a dire è qualcosa come «e allora la penicillina?».

Cioè, tutto il sapere, i felici incontri di filosofia e studio della natura, di logica e poesia, di epistemologia e scienze umane, nella mia mente si concentrano tutti nel punto rappresentato dalla scoperta che fece Fleming nel 1928. Tutto quello che c’è stato prima non lo nomino, ma nemmeno mi viene in mente. Perché? Forse perché, se davvero sto facendo quel tipo di conversazione, chi ho davanti è tipo da convincere solo con l’evidenza di qualcosa senza la quale prima si moriva. Sì, forse.

Ma chi voglio prendere in giro. La verità è che io non sono in grado di sostenere convintamente che Gita al faro sia importante quanto l’antisepsi.

Così, lo so, do la stura all’altro per poter affermare che allora lo vedo?, non serve leggere, e tutti sti libri poi. E non serve nemmeno che studiamo tutti, basta che studino i figli dei dottori, o quelli che a scuola riescono a stare zitti per più di 10 minuti di seguito. Anzi, visto che siamo arrivati fin qui senza estinguerci, tanto vale che studino solo gli uomini. Perché, mi dicono questi, che sono scemi ma non matti: perché tra tutte le scoperte dei secoli non ce n’è nemmeno una fatta da una donna? Non ti pare strano? Mi diranno di più: a parte Virgina Woolf e cosa, là, la poetessa, pure gli scrittori che io amo tanto sono tutti maschi. Non credo? Su questo hanno ragione. D’altra parte, visti i soggetti, che il massimo del femminile di cui hanno pratica è la fidanzata di Beckham, non mi metto certo a tirare fuori Gaspara Stampa.

Ma è proprio qui che li frego. Non perché abbia nomi femminili da snocciolare, no. Ma perché posso fare una capriola e dimostrare quanto segue.

Se dal 1800 i grandi romanzieri intenti a indagare nelle pieghe nascoste delle psicologie si accorgono delle donne, è perché le donne c’erano prima di loro. Non è ancora chiaro? Vediamo: se dopo il secolo rivoluzionario, libertino, cortigiano, in cui le donne sono – ma questo, tenendo molto ai miei denti, non lo dico di solito – strumenti dialettici del compimento della storia, inizia il secolo dell’amore passionale, è perché gli scrittori si sono accorti che la passione delle donne muove il mondo. E non c’è passione senza adulterio.

Se gli uomini, fosse anche i migliori tra gli uomini, come Goethe, Flaubert, Zola, Hawthorne, Tolstoj, inventano figure femminili capaci di tradire, è perché hanno fatto l’esperienza o la conoscenza di donne che tradiscono, e hanno avuto il modo e la sensibilità di raccontare le vibrazioni emotive che tale esperienza comporta.

Spesso prendevano spunto da fatti di cronaca, come nel caso di Madame Bovary, oppure dalla biografia personale, come nel caso di Lady Chatterley, immaginata e scritta un po’ più tardi. Ma in ogni caso questi romanzi sono una fotografia maschile di un comportamento eversivo femminile. Queste eroine, lo sanno quasi tutti, si ribellano all’ordine borghese e alla morale religiosa. La loro passione sorge prima di ogni suo cronista; esse esistono a prescindere e nonostante gli uomini.

Giacché hanno fatto le medie, i miei interlocutori mi tirano fuori Francesca quella di Paolo e Francesca: pure quella era un’adultera, no? E stiamo parlando di quando? Del Medioevo?

(Sì, vabbe’). E infatti guarda dove sta Francesca.

Ma non sono le donne che esistono prima, dice: è la passione. No, dico io: è qualcosa di molto più importante.

Allora: nel 1911 Robert Musil (che aveva scritto il Törless, quindi di passione un po’ ne sapeva), scrive una novella che si chiama Il compimento dell’amore.

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Quello che fa fare alla sua eroina è, per l’epoca, incredibile: Claudine sta viaggiando per lavoro, da sola senza il marito, che ama. Come l’uxoricida per gelosia della Sonata a Kreutzer di Tolstoj, è in treno, e pensa al suo matrimonio. Succede tutto molto lentamente, al ritmo dei pensieri, e allo stesso tempo velocissimamente, come se lo spostamento di una piccola leva desse luogo a un cambiamento irreversibile. Si domanda: ma perché sono sposata con mio marito? Perché lui è mio marito? Cosa ho da spartire, io, con quest’uomo?

È un po’ come dicevano gli antichi, che chi muore a 30 anni è per tutta la vita qualcuno che morirà a 30 anni? (<— questa è una mia aggiunta). Avendo sposato lui, io annullo il mio passato, le mie avventure, i miei orgasmi, esattamente come annullo il mio futuro? È questa la libertà?

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Io ero destinata a quest’uomo, ci siamo detti. Ma che vuol dire? Lui o un altro sarebbe stato lo stesso. Se io non lo avessi mai conosciuto non ne sentirei certo la mancanza, e avrei imparato ad amare un altro.

È a partire da questa premessa – che è filosofica – che Claudine apre il suo universo psicologico e fisiologico, ma anche cosmico, come catena di cause ed effetti, al tradimento. Ma non nel senso che diventerà pronta ad innamorarsi di altri, no: nel senso, più radicale, che si lascerà percorrere da una sensualità che è del tutto sua, e che sa di poter distribuire e soddisfare indiscriminatamente.

Sul treno intercetta lo sguardo di un uomo:

Pensò che doveva essere certamente un uomo mediocre. (…) Adesso provava uno strano piacere a rispondergli gentilmente.

Arrivata a destinazione, si trova a parlare con alcuni colleghi, traendone una specie di piacere nella costrizione.

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Da sola in albergo, sente uomini sconosciuti dormire nel buio delle altre stanze:

Sentì un calore improvviso e fantastico.

Gli eventi si susseguono secondo una catena di eventi casuali e non necessari, arbitrari e inesplicabili.

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Arriva persino, per dire quanto questa sensualità è impersonale, ad eccitarsi pensando ai piedi che hanno calpestato il tappeto della sua stanza d’albergo. Incontra di nuovo quell’uomo, che alloggia lì. Percepisce nel corpo la sfida dell’abiezione, fino al pensiero del sacrificio.

E sentì gli occhi del consigliere ministeriale cercare i suoi… e si spaventò ed ebbe desiderio di sé e percepì improvvisamente i propri vestiti come qualcosa di chiuso intorno all’ultima tenerezza rimastale, e sentì sotto di loro il proprio sangue, credette di fiutare il suo odore acuto e vibrante e non aveva altro che questo corpo che doveva sacrificare.

Aprendo la possibilità matematica dell’adulterio senza passione, Musil – che è ingegnere – sta facendo della fisica.

Claudine commetterà adulterio, ma solo nelle ultime righe e per un indifferente caso. L’infedeltà è già avvenuta nel momento in cui si è resa conto che la sua vita, con l’illusione della stabilità e della scelta, non è frutto di nessun destino. Claudine tradisce senza amore. Questo è il momento dell’agnizione:

La assalì segretamente un’idea: da qualche parte, in mezzo a questi uomini ne vive uno, inadeguato, un altro, ma sarebbe stato possibile adeguarsi a lui e non si sarebbe saputo niente dell’io che si è oggi. Perché i sentimenti vivono solo in una lunga catena di altri sentimenti, tenendosi l’un l’altro, ed è importante solo che un punto della vita si allinei all’altro senza spazi vuoti, e ci sono centinaia di modi.

L’arbitrio è bello non solo perché è libero – questa è una invenzione da prete: ogni arbitrio presuppone uno stato delle cose rispetto al quale un altro deve inchinarsi e piegare la sua volontà. L’arbitrio più vertiginoso è quello cosmico, quello che di caso in caso ci conduce davanti a una scelta, e rispetto al quale non vale nessun sacramento. Il marito di Claudine non saprà mai nulla, ma è sufficiente che la cosa sia avvenuta, o anche sia stata pensata, per alterare per sempre le cose. Lei ha dimostrato di potergli dire addio in qualsiasi momento, anzi gliel’ha già detto: non si può tornare indietro da una cosa del genere.

Ed è proprio questo non poter tornare indietro che le farà decidere di tornare a casa, come nel terzo movimento di una sinfonia. L’assenza di lui stabilisce la giustezza della scelta, non per via originale (devo tornare a lui perché da lui provengo), ma arbitraria. È questo per lei il compimento dell’amore, la sua apoteosi dialettica: la dimostrazione della sua casualità non destinale.

Di lui, del maschio tradito, pietoso risponde in un altro libro Giorgio Manganelli:

E dunque, nella notte perfetta della tua anima, nel tracchebellacche del tuo cervello sonoro e secco, che sentenzi e concludi, cornuto? O.d.g.: morirne, ucciderla, affondare, come comandante di sommergibile, – la mano sulla visiera, represso un ultimo rutto, – in una scadente grappa di confine? La solitudine accelera la cariocinesi dell’anima. (…) Dunque: la magalda infedele è dolosa divinità a se medesima; si umilia a vas sacrificale, ti si fa ancella e martire… tu ne mangerai la memoria.

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In questo grande libro sull’abbandono inteso in tutti i suoi sensi, Manganelli svela il segreto generale dell’amore, la chiave di volta per aprire l’arbitrio dell’universo.

Ad ogni quantità di amore è intrinseco il suo proprio e specifico addio (…). Viene da sospettare che questo ratto perenne delle anime e dei corpi altrui sia cosmicamente fatale; quindi opino: trapassando di amore in amore, di addio in addio, lentamenteper i secoli ci si lega in presenza ed in assenza. Così accade: io dono le mie mani a donna di me amorosa; costei si disamora; d’altri amorosa, a costui ignaro lei ignara dà, con le sue, parte o tutto delle mie mani; costui, derelitta la femminella, si innamora di angelicato afrita, o altro fantasma: ed ecco la mia mano abrenunciata incosmicarsi; dall’afrita trapassa in poltergeist, sakti, arcengelo; e oltre: dopo secoli si troveranno, le mie mani, in dotazione ad una qualche periferica nebula, o se le commerceranno serafini e cherubini; io morto, infine, un giorno, ignaro o meno, ritroverò le mie mani; o forse delle mie mani, e di quelle di ogni altra creatura o increata amorosamente cedute si farà una polpa amorosa. Grandissima emozione, incontrare nei cieli un’aureola d’unghia, e riconoscerla come propria, e sulla fragile e secca cheratina rintracciare, come su valva di conca o in ventre di albero resecato, le stigmate del viaggio, e i segni degli stupri d’amore patiti o inflitti; dei volti lacerati in orgasmi d’addio.

Altro che penicillina, la scoperta più importante della storia è questa: l’esattezza inutile del caso. Possiamo amare chiunque abbia calpestato un tappeto di una stanza d’albergo.

Tutto l’universo si ama e si abbandona, e «tra le due condizioni non vedrai differenza di sorta».

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Daniela Ranieri

Daniela Ranieri vive a  Roma, anche se si domanda perché ciò dovrebbe avere importanza in questa sede. Ha fatto reportage e documentari per la tv. Ha fatto anche la content manager, per dire. Vende una Olivetti del '79, quasi  nuova. Crede che prendere la carnitina senza allenarsi faccia bene uguale. Ha pubblicato il pamphlet satirico "Aristodem. Discorso sui nuovi radical chic" e il romanzo "Tutto cospira a tacere di noi" (entrambi Ponte alle Grazie) 

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