Il silenzio delle Sirene ≈ Ulisse legato ≈ Kafka: come liberarsi dei social network
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Il silenzio delle Sirene ≈ Ulisse legato ≈ Kafka: come liberarsi dei social network

Noi non siamo uguali a quelli che non usano Twitter e Facebook, alla zia ultraottuagenaria, alla nonna il cui televisore è stato sintonizzato su Rai1 e Teletuscolo quarant’anni fa e sta bene così, a Franzen. Non potremmo mai …Leggi tutto


Noi non siamo uguali a quelli che non usano Twitter e Facebook, alla zia ultraottuagenaria, alla nonna il cui televisore è stato sintonizzato su Rai1 e Teletuscolo quarant’anni fa e sta bene così, a Franzen. Non potremmo mai tornare indietro o far finta che non esistano. Sappiamo che sostenere che i social network siano solo servizi tra i tanti offerti dalla rete è falso, perché essi sono anche luoghi o meglio contesti o meglio ancora situazioni.

La bontà e l’intelligenza non sono proprie delle situazioni, sono le persone che le abitano o che vi passano attraverso a farle buone o intelligenti, dando loro significato e valore. Parlare di intelligenza della rete è come parlare dell’intelligenza della “Ditta fioristica Narciso Boccadoro, Caltanissetta”.

Quelli che amano l’aspetto poetico della vita li definiscono “scogli nel mare dell’informazione globale“.

Scogli. Uhm. Conosco un altro caso – non storico: mitico; quindi storico al cubo – di scogli che sono anche contesti ipotetici di sconosciute perdizioni. Sì, Ulisse e le Sirene. La differenza è che Ulisse ha una missione da compiere, e deve resistere a tutte le deviazioni; noi, cedendo al richiamo della distrazione offerta dai social network che siamo noi stessi a crearci, è la deviazione da ogni scopo o utilità, che cerchiamo.

Vogliate seguirmi.

Perché Ulisse, passando con la sua «nera nave» vicino all’isola delle Sirene, si fa legare all’albero? Perché non si mette, come i suoi compagni, la cera dentro le orecchie per non udirne il fatale canto?

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Circe gli aveva detto:

«che nessuno degli altri le senta. Tu ascolta pure, se vuoi: mani e piedi ti leghino nella nave veloce, perché tu possa udire la voce delle Sirene e goderne». Ma aveva specificato che le Sirene uccidono chi «ignaro s’accosta», cioè chi non sa nulla del loro potere (Franzen, nel nostro esempio).

È importante il contenuto di quel canto. Non si tratta solo di un suono di seduzioni marine, sfrigolamenti di branchie, melodie ultrasonore: le Sirene parlano. Cercano di lusingare Ulisse elencando le sue imprese, vezzeggiandolo, chiamandolo «grande gloria degli Achei», promettendogli godimento e una conoscenza più profonda. Gli dicono che sanno «quello che accade sulla terra ferace»: gli fanno intravedere un’altra vita, fatta di Eros e sapienza.

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Lui si fa legare perché sa che tutto questo sarebbe per lui irresistibile.

Noi anche lo sappiamo bene: niente ci può staccare dai social network, a parte il loro malfunzionamento. Nulla che non sia questione di vita o di morte, nostra, dei nostri cari o dei nostri animali domestici. Altre soluzioni: eventi naturali a carattere catastrofico, o un semplice blackout. Dipendesse da noi, dovremmo chiedere di essere ipnotizzati o tramortiti per tenercene lontani.

Ecco che intervengono in nostro aiuto, progettati da sofisticati conoscitori dell’animo umano diplomati al MIT o simili, due strumenti ad hoc: Anti-Social e Macfreedom. Sono software scaricabili gratuitamente che servono a disattivare i social network per un certo periodo di tempo. Sono un esempio di quelli che in teoria dei giochi si chiamano “marchingegni obliqui”, espedienti basati su logiche apparentemente contraddittorie.

A loro volta fondati sulle stesse regole delle rete che intendono limitare, sono nati sulla base del presupposto che l’aver assecondato il nostro desiderio di distrazione ci ha recato dei danni. Facebook e Twitter hanno ampliato la nostra rete di conoscenze, ci hanno confermato nel nostro narcisismo, ci hanno fatto sentire il tocco fantasmatico dell’eros; d’atra parte, hanno diminuito la nostra produttività, ci hanno distolto dagli impegni familiari, magari ci hanno procurato un divorzio e una querela per diffamazione. Il nostro datore di lavoro ci ha fatto un richiamo perché ci vede sempre là sopra. Abbiamo inseguito una nostra foto compromettente e lei è rispuntata instagrammata sulla bacheca di un altro, con molti like sotto. Per colpa “loro”, non leggiamo più. Tecnicamente, la nostra è un caso di servitù volontaria. Tutto sommato, un po’, a volte, Franzen lo invidiamo.

Come farebbe qualsiasi persona sana, abbiamo deciso di limitare il tempo che perdiamo su, metti, Facebook. Ma le nostre dita sono più veloci del nostro cervello, e la carne dei polpastrelli è più forte della nostra volontà. Passa un minuto, e riapriamo la finestra, o meglio il baratro, del nostro infaticabile ozio mentale. Dipendesse da noi, e potesse ascoltarci, invece che “Taci!” grideremmo al web, indefinitamente,“Incantami!”.

Semplicemente, chi ha inventato questi programmi sa che noi non siamo sempre in grado di seguire le nostre inclinazioni razionali.

Sono stati scritti pregevoli trattati su questo meccanismo. Jon Elster, filosofo e, dice Wikipedia, “professore di Razionalità e scienze sociali al Collège de France di Parigi”, ha dedicato una vita ad applicare il paradosso di Ulisse agli ambiti che vanno da quella che sui femminili viene chiamata “sfera emotiva”, a quella, maschile, della politica e dell’economia.

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La chiama “strategia dell’obbligarsi preventivo”, e la articola nelle sue manifestazioni più comuni, tipo “buttare via la chiave”, cioè fare in modo che la sostanza desiderata sia fuori dalla nostra portata per un po’ (è il caso di Anti-Social), o del “consegnare ad altri”, cioè arruolare persone in qualità di agenti e nel chiedere loro la protezione da sé stessi (è quello che fa Ulisse coi marinai).

Limitare il proprio tempo di connessione – come se ci fossero ancora le sessioni a tempo – non è come smettere di fumare. Non ci sono alternative analogiche, come una passeggiata, in gradi di attrarci di più, perché si tratta di esperienze impareggiabili e inconciliabilmente eterogenee. Non esistono incentivi in grado di prometterci un miglioramento nel futuro a prezzo di una rinuncia nel presente, perché il tempo che spendiamo sul web è un eterno presente, un divenire gelato, un lifestream indifferenziato e continuo.

Per il web vale quello che Manganelli scrisse in merito a Flatland di Edwin A. Abbott:

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«La sua struttura fintamente sociale è un altro esempio di linguaggio e, insieme, degli elementi tragici di ogni linguaggio: la sua vocazione a porsi come definitivo, come “la realtà”, e quindi la sua cattiva coscienza, cioè la nostra».

Non serve nemmeno aver fatto studi classici: la corda di Alfieri ci terrebbe sulla stessa sedia da cui prima o poi ci verrebbe la voglia di sbriciare nel gorgo. Serve uno stratagemma che ci allontani da quello che c’è nel pc senza allontanarci dal pc, o dallo smartphone senza doverlo gettare nel fiume, perché sono anche strumenti di lavoro cioè di sopravvivenza.

Dobbiamo massimizzare la nostra razionalità. Come? Plasmando la forza del mito nella forma dei byte.

L’astuto, il chiaro, il razionale Ulisse si fa legare perché non si fida di sé. Non potrebbe semplicemente resistere a quella tensione che si sviluppa attorno alla sua nave? La vista di cadaveri e ossa sulle rocce non è sufficiente a spalancare un baratro mortale sul futuro e a farlo fuggire, con lo sguardo dritto e fiero?

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Noi siamo automatismo altrettanto che spirito, diceva Pascal. Farsi legare è una strategia che appartiene a una “razionalità di secondo livello”: abdicando alla propria ragione, Ulisse fa sì che la potenza del mito non la detronizzi, perché l’abdicazione è meno disonorante della detronizzazione.

«Proprio in quanto – tecnicamente illuminato – si fa legare, Ulisse riconosce la strapotenza arcaica del canto», scrivono Adorno e Horkheimer in Dialettica dell’Illuminismo.

L’invenzione di Macfreedom e Anti-Social è l’ironica conferma della potenza dialettica del web. Fornendoci delle catene nel momento in cui esso ci promette la libertà e la socialità, non potrebbe confessare più chiaramente che non siamo più in grado di agire conformemente al nostro bene.

Occorre che un’istanza fuori di noi, severa e forte, silenzi il canto che ci attrae. Di che natura è questo canto? Lo sappiamo tutti fin troppo bene. Quello che non ammettiamo è che pur annettendoci sempre nuove, incontaminate porzioni di memoria esterna, quello che cerchiamo è una forma di oblio, e se questa parola pare troppo grossa diciamo: una forma di differimento. Viviamo attivando una serie di trucchi che consistono nel creare certi ostacoli nel superare i quali traiamo un piacere intristito, come Buster Keaton.

Nell’eccesso, calcoliamo il rischio di non trovare nulla di traducibile in vita, in tempo, cioè in esperienza.  L’assenza di quello che vogliamo – domande invece che risposte, differimenti continui, prove di irraggiungibilità, distanza, freddezza mescolata alla simulazione di confidenza – soddisfa pienamente la nostra connessione incessante.

Per attivare Anti-Social io devo connettermi, e magari passare da Facebook (a me è andata proprio così: qualcuno aveva scritto sulla propria bacheca, come farebbe un barbiere che va a prendere un caffè, “Torno tra venti minuti: ho attivato Anti-Social”). Devo regredire a uno stato in cui qualcun altro decide per il mio bene, come se chiedessi a una ditta che produce grasso animale di tenermi alla larga dalla carne e quella mi chiedesse di tenere una mucca parcheggiata in salotto.

Ma allora non abbiamo scampo?

Forse sì. Ci vuole il genio di Kafka per sorpassare sia il logos operante nella strategia di farsi legare, sia il “punto debole” della sua dialettica (il software razionale, salvifico e totalitario), sia la forza attraente del mito (il richiamo della seduzione, la magia dell’eterno presente, sempre cangiante e coattivo, del web).

Nel racconto intitolato Il Silenzio delle Sirene, Kafka immaginò che le Sirene, invece, non cantassero, «sia che credessero che solo il silenzio potesse vincere quell’avversario, sia che, alla vista della beatitudine nel volto di Odisseo, che non pensava ad altro che a cere e a catene, si dimenticassero proprio di cantare».

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Forse, aggiunge, Ulisse si è realmente accorto che le Sirene tacevano e ha, per così dire, «solo opposto come scudo a loro e agli dèi la suddetta finzione».

Forse non occorre farsi legare per non cedere al canto dei social network; forse dobbiamo solo sentirne il silenzio, opporre alla loro missione la nostra, abbagliarli con la nostra bellezza.

Questo è il racconto, lo riporto tutto perché nella sua tensione ghiacciata, nel suo sviluppo teso, fulgido e gelido come gli anelli di legami molto più forti di quelli di ferro, ognuno possa fare le proprie analogie e sciogliersi le proprie catene.

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Il silenzio delle Sirene 

Dimostrazione del fatto che anche mezzi inadeguati, persino puerili, possono servire alla salvezza.

Per difendersi dalle Sirene, Odisseo si tappò le orecchie con la cera e si lasciò incatenare all’albero maestro. Naturalmente tutti i viaggiatori avrebbero potuto fare da sempre qualcosa di simile, eccetto quelli che le Sirene avevano già sedotto da lontano, ma era risaputo in tutto il mondo che era impossibile che questo potesse servire. Il canto delle Sirene penetrava dappertutto e la passione dei sedotti avrebbe spezzato ben più che catene e albero. Odisseo non ci pensò, benché forse lo sapesse. Confidava pienamente in quel poco di cera e in quel fascio di catene, e, con innocente gioia per i suoi mezzucci, andò direttamente incontro alle Sirene.

Ora, le Sirene hanno un’arma ancora più terribile del canto, cioè il silenzio. Non è certamente accaduto, ma potrebbe essere che qualcuno si sia salvato dal loro canto, ma non certo dal loro silenzio. Al sentimento di averle sconfitte con la propria forza, al conseguente orgoglio che travolge ogni cosa, nessun mortale può resistere.

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E, in effetti, quando Odisseo arrivò, le potenti cantatrici non cantarono, sia che credessero che solo il silenzio potesse vincere quell’avversario, sia che, alla vista della beatitudine nel volto di Odisseo, che non pensava ad altro che a cere e a catene, si dimenticassero proprio di cantare.

Ma Odisseo tuttavia, per così dire, non udì il loro silenzio, e credette che cantassero e di essere lui solo protetto dall’udirle. Di sfuggita vide sulle prime il movimento dei loro colli, il respiro profondo, gli occhi pieni di lacrime, le bocche socchiuse, ma credette che questo facesse parte delle arie che non udite risuonavano intorno a lui. Ma tutto ciò sfiorò appena il suo sguardo fisso nella lontananza, le Sirene sparirono davanti alla sua risolutezza e, proprio quando era più vicino a loro, non seppe più niente di loro.

Quelle – più belle che mai – si stirarono e si girarono, fecero agitare al vento i loro tremendi capelli sciolti e tesero le unghie sulle rocce. Non volevano più sedurre, volevano solo carpire il più a lungo possibile lo sguardo dei grandi occhi di Odisseo.

Se le Sirene avessero coscienza, quella volta sarebbero state annientate. Ma sopravvissero, e solo Odisseo sfuggì a loro.

A questo punto, si tramanda ancora un’appendice. Odisseo, si dice, era così astuto, era una tale volpe, che neppure la Parca del destino poteva penetrare nel suo intimo. Egli, benché questo non si possa capire con l’intelletto umano, forse si è realmente accorto che le Sirene tacevano e ha, per così dire, solo opposto come scudo a loro e agli dèi la suddetta finzione.

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Daniela Ranieri

Daniela Ranieri vive a  Roma, anche se si domanda perché ciò dovrebbe avere importanza in questa sede. Ha fatto reportage e documentari per la tv. Ha fatto anche la content manager, per dire. Vende una Olivetti del '79, quasi  nuova. Crede che prendere la carnitina senza allenarsi faccia bene uguale. Ha pubblicato il pamphlet satirico "Aristodem. Discorso sui nuovi radical chic" e il romanzo "Tutto cospira a tacere di noi" (entrambi Ponte alle Grazie) 

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