Se vi piace la montagna non innamoratevi
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Se vi piace la montagna non innamoratevi

Quando racconto che una volta mi sono persa sul Monte Livata la gente ride. Come se i monti non avessero tutti la stessa dignità di pericolosi molossi dove le bussole impazziscono, il freddo fa quello che deve fare cioè imperversa, …Leggi tutto

Grandi scrittori si sono premurati di far smarrire il proprio protagonista nel mezzo di tempeste in lande ostili se non addirittura polari. Hanno usato la neve, la tormenta e il panico per riflettere sull’amore e la sua durata e sulla costernazione di aver perso tutto.

Lasciamo accanto l’insuperato delirio ghiacciato dello smarrimento di Hans Castorp ne La montagna incantata (o magica) di Thomas Mann, che di questi vaneggiamenti esistenzial-amorosi sottozero è pure modello.

Ne Le vite di Dubindi Bernard MalamudDubin, di professione biografo di scrittori, si innamora della difficile Fanny.

Sta scrivendo una biografia di D. H. Lawrence e dei suoi «ossessivi pellegrinaggi», vuole perdere peso, non sa che pesci prendere. Un giorno dice alla moglie che esce per una passeggiata, perché «qualsiasi cosa distragga la mente da se stessa può giovare»; ma immediatamente, mentre la neve scende sempre più fitta, si addentra nel territorio buio del bianco totale. Si perde.

«Aveva sostituito il suo nero mondo interiore con quello candido esterno, ugualmente pericoloso: il fato dell’uomo in varie gradazioni».

Il panico che sente nelle viscere gli fa comprendere, con un misto di ironia e perfidia, che lo smarrimento è un’allegoria del suo stato emotivo, cioè la forma che assumerebbe una sua ipotetica biografia se qualcuno si prendesse la briga di scriverla: avrebbe la forma spaventosa di tanti geometri fiocchi di neve, costretti nel loro grafismo minuto, ammucchiati l’uno sull’altro a creare una coltre gelida e micidiale.

«Perché non aveva imparato qualcosa di più sulla natura? Da che parte è il nord? Aveva visto muschio su tutti i lati del tronco di un albero. Come faccio a evitare di girare in tondo? Non è possibile per chi vive in un circolo vizioso».

La vita regolata, amministrata dentro una quotidianità spenta e un matrimonio arido e noioso, rischia di finire a poche centinaia di metri da casa: «Che follia non essere rimasto in casa con le mie piccole infelicità sedentarie! Ora rischio la vita. Quanta poca scelta rimane quando tutto è bianco, il vento impetuoso, la neve alta».

I molari gli dolgono per il freddo, il cuore gli martella in petto, grida ma il suo grido lo spaventa, comincia a bisbigliare tra sé. «Una cosa più pazzesca non poteva accadere. Che idiota che sono. Era l’idea di possederla quello che volevo, più della ragazza in quanto tale. Chi è lei per me? non merita i sentimenti che le sto dando. Ecco come mi sono ridotto».

Al premio Nobel per la fisica di Solar di Ian McEwan va anche peggio.

Accodatosi a una spedizione di studiosi/scienziati/artisti che vuole indagare i cambiamenti climatici, finisce al Polo nord. Ottantesimo parallelo. Ventotto gradi sottozero, neanche tanto. Anche lui lo fa per distrarsi, per fare qualcosa, per schiarirsi le idee in merito a matrimonio, amore, amorazzi. Solo che quello che succede mette in discussione e in ridicolo una vita di studi e qualcosa di forse ancora più importante.

«Si rese conto di aver raggiunto il momento che imponeva una scelta immediata: fermarsi e pisciare subito, lasciarsi esplodere la vescica, con conseguente possibilità di decesso per infezione interna, o farsela addosso e morire assiderato».

Decide di fermarsi e di farla  lì, spalle al vento: «Gli ci vollero due minuti buoni per abbassare la lampo della tuta da motoslitta. (…). Ancora una volta gli si stavano annebbiando e gelando gli occhiali (…), mentre il suo prezioso calore corporeo si disperdeva nel gelo feroce dell’aria e il vento che gli turbinava intorno alla schiena andava a picchiare contro la roccia e gli prendeva a schiaffi la faccia».

Ed ecco: «L’errore fu quello di attendere alcuni secondi a operazione conclusa, come tendono a fare gli uomini di una certa età, per assicurarsi che non ci sia altro in arrivo».

Come Dubin, il fisico pensa a tutte le più confortevoli alternative: «se avesse accettato uno qualsiasi degli altri inviti, alle Seychelles, a Johannesburg o a San Diego …». Ma forse si attarda un po’ troppo a pensare, «Giacché una volta terminata la sua incombenza scoprì che il pene gli si era incollato alla cerniera della tuta, che gli si era congelato per tutta la lunghezza come succede alla carne viva a contatto con una superficie metallica sottozero».

Da bravo fisico, ci butta sopra del brandy, e riesce a staccarlo; risale in motoslitta chiedendosi «ma perché non era a casa sua, nel suo letto?», quando sente accadere qualcosa di spaventoso: «qualcosa di freddo e di rigido gli si era staccato dall’inguine per scendere lungo la calzamaglia e andare a fermarsi giusto sopra la rotula. Si portò una mano in mezzo alle gambe e non trovò niente. Se la portò al ginocchio e quel coso orrendo, meno di cinque centimetri in tutto, era lì, duro come un sasso».

È chiara la contiguità che per questi grandi scrittori l’amore intrattiene con il gelo e con l’eventualità di morte per assideramento. Ma più allusivo, rigido perfino nella sintassi, è Gelo di Thomas Bernhard, in cui a smarrirsi è il giovane medico incaricato dal suo superiore di seguire la giornata di suo fratello, il vecchio pittore Strauch («Le montagne, vede – gli dice il pittore – sono i grandi testimoni di grandissimi dolori»), nel paese nevoso di Weng.

Nel bianco allucinante, nel mezzo di una sferzante tempesta, il giovane, dapprima distante e “sano” come il giovanetto de la Montagna incantata, comincia a pensare:

«Che il mondo muoia dentro di me, e che io muoia per opera sua e che tutto finisca, come se non fosse mai esistito».

Cosa lo tormenta? Un amore che sembra finito. «Solo all’inizio il rapporto tra due giovani che si sono avvicinati – all’improvviso o lentamente, ma poi con la rapidità del fulmine – è qualcosa, ma già allora tende a trasformarsi in dolore – disse il pittore. È così bello, è prezioso fino a che non è ancora nulla, – disse lui. Ai giovani riesce la straordinaria impresa di ingannare per un attimo il mondo».

E poi nel bosco pensa «Come è avvenuto? E come e perché è finita all’improvviso? Dapprima nemmeno un giorno senza di lei, poi quasi nemmeno una notte senza di lei, poi tutto si sgretolò come s’è sempre sgretolato tutto, ritornò indietro nelle due direzioni distinte di due esseri umani distinti, lontanissimi».

«Allora tutto diventa simile a due montagne separate da un fiume in piena».

Quindi il consiglio è: se proprio dovete andare in montagna fate molta pipì prima di mettervi in viaggio; portate sempre con voi una bottiglietta di brandy; se vi piace la montagna non innamoratevi.

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Daniela Ranieri

Daniela Ranieri vive a  Roma, anche se si domanda perché ciò dovrebbe avere importanza in questa sede. Ha fatto reportage e documentari per la tv. Ha fatto anche la content manager, per dire. Vende una Olivetti del '79, quasi  nuova. Crede che prendere la carnitina senza allenarsi faccia bene uguale. Ha pubblicato il pamphlet satirico "Aristodem. Discorso sui nuovi radical chic" e il romanzo "Tutto cospira a tacere di noi" (entrambi Ponte alle Grazie) 

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