Toyo Ito: "Ricostruisco la casa sociale"
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Toyo Ito: "Ricostruisco la casa sociale"

Il grande architetto giapponese ha abbandonato i materiali hi-tech per tornare al legno. E ridare vita alle zone colpite dallo tsunami. Perché attraverso un luogo d’incontro la vita possa ricominciare

Lo sfondo in primo piano, e il pensiero rivolto ai deboli. L’opportunità di ripartire da zero. Toyo Ito, uno degli architetti più importanti al mondo, non pensa ad altro che alla sofferenza e alla forza del popolo giapponese alle prese con la ricostruzione post tsunami, anche se intorno a lui si fa festa per l’inaugurazione di Home for all (padiglione nazionale nipponico di cui è il curatore) che ha vinto a sorpresa il Leone d’oro della Biennale di Venezia 2012, sbaragliando quello statunitense.

"Non parlate di me, ma della mia gente": sorride elegante questo fuoriclasse delle città simulate, artista borderline che nella vita e nel lavoro ha sempre sovrapposto e contaminato stili, idee, suggestioni. Un architetto del Terzo millennio che non ha mai avuto paura di sfidare la fisica e di giocare con la luce e che adesso, per una volta, è chiamato a usare nient’altro che il legno.

"Realizzare il progetto Home for all e questo padiglione dedicato alla possibile ricostruzione dei territori giapponesi martoriati dallo tsunami è stata una grande sfida" spiega nella sua lingua madre, assistito da un interprete che non lo abbandona mai, perché mister Ito vuole essere preciso in ogni sfumatura e perciò non accetta interviste in inglese, "specialmente per me, che sono un architetto che ha sempre inseguito il futuro e amato giocare con le infinite possibilità della tecnologia. E dico sfida lavorativa, certo, ma soprattutto umana. E universale, perché, come purtroppo dimostra la storia di molti paesi, fra cui anche la vostra Italia, con l’architettura della ricostruzione ci troviamo tutti prima o poi a fare i conti".

In Italia, però, l’architettura della ricostruzione dopo i terremoti tende a essere imposta dall’alto, dal governo, e per questo è vissuta dalla popolazione come altro da sé. Anche in Giappone accade questo?
Spesso sì, accade anche da noi. Purtroppo si tende a rimuovere il fatto che i piani di ricostruzione nazionali, governativi, non coincidono con l’idea della gente, con i loro ricordi e con il loro modo di vivere la città. Sono piani "safety and security", magari perfetti dal punto di vista dell’ingegneria civile, ma lontani dall’umanità.

E la soluzione, il giusto compromesso qual è?
Non parlerei di soluzione, ma di sollievo. Il nostro progetto, per esempio, intendeva restituire alle popolazioni che hanno perso tutto una casa sociale (home for all, appunto) dove potersi incontrare. Dove scambiare quattro chiacchiere, socializzare, ricominciare tutti insieme a fare comunità.

Strutture che quasi non esistono più nemmeno nelle città che non hanno subito disastri…
Esatto. Non so bene come funzioni in Italia, ma in Giappone noi architetti viviamo tutti i giorni questo dramma: la non vivibilità dello spazio. La discrepanza fra architettura e urbanistica. Facciamo l’esempio di Tokyo. È diventata un luogo in cui l’obiettivo è esclusivamente quello di espandere al massimo le attività economiche e, di conseguenza, lo spazio dedicato a queste. La comunità fatta di persone ha quindi perso spazio, occasioni, luoghi; questo ha fatto sì che dall’idea di comunità si passasse a quella di tanti individui, uniti dal rito del consumo, dell’acquisto e della produzione. Io ho quindi pensato che accettare la sfida di progettare qualcosa in un luogo dove non esisteva più niente e dove si potesse ripartire da zero, fosse una buona opportunità.

Lei e i suoi collaboratori, quindi, avete progettato una specie di comune?
Possiamo anche chiamarla così, ma io preferisco definirla casa sociale. La prima è sorta lo scorso autunno nel campo di Miyagino Ward, nella regione di Sendai. Tutta in legno, completamente pagata da sponsor, è stata costruita con la totale collaborazione fra chi l’ha realizzata, quindi architetti e artigiani, e chi l’avrebbe usata.

Un progetto edificante, ma non si rischia la retorica? A gente che ha perso tutto non si può solo regalare un luogo d’incontro, concedendo loro di partecipare alla progettazione.
No, certo, è un progetto piccolo ma significativo. La ricostruzione va avanti con i tempi e i modi del governo. Però il nostro home for all vuole dire ricominciare a pensare al domani e farlo tutti insieme. E per questo motivo le persone ci hanno accolti benissimo.

Siete stati sicuramente aiutati dal fatto che le zone distrutte dallo tsunami non fossero state ancora toccate dallo sviluppo di massa, o no? C’era ancora forse una forma di società più elementare.
Certamente. Ci siamo trovati, io e i miei collaboratori, in aree non toccate dal grande sviluppo economico del Giappone degli ultimi anni. Luoghi dove l’uomo riusciva ancora a vivere molto in contatto con la natura e con gli altri uomini; io questo l’ho percepito chiaramente. Stare lì tanto tempo, lavorare esclusivamente con il legno, ci ha fatti davvero riflettere sul tema del ripartire da zero. Fuori di retorica, per noi architetti può essere una grande sfida.

Una grande sfida per migliorare e ricostruire la fibra sociale delle nostre città?
E anche per trovare un «common ground» per la nuova architettura. Rendere centrali i luoghi marginali, quelli lontani dai cicli produttivi. E umanizzare quelli ormai rovinati da decenni di corsa al profitto, e solo al profitto. Fare tabula rasa all’interno del grande caos del tessuto urbano. Per restituire all’uomo il piacere di vivere le città.

Un nuovo manifesto per l’architettura: si tratta di un’ambizione non da poco, non le pare?
Le cose importanti non sono mai da poco: sacrificio e sudore, ancora sacrificio e ancora sudore. Solo così ci salveremo.

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Maddalena Bonaccorso