Rosy Bindi e la grillina: qua la mano, nemico mio
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Rosy Bindi e la grillina: qua la mano, nemico mio

Non è solo una mancanza di educazione evitare il gesto simbolico. In gioco c’è molto di più: l’imbarbarimento di politica, morale, vivere comune. E la vittoria del virtuale sulla fisicità

La grillina Gessica Rostellato si esibisce come madre premurosa per la piazza di Montecitorio, ma si rifiuta di compiere un gesto tanto semplice come quello di stringere la mano a una sua collega. Cosa avrà fatto di così grave Rosy Bindi per sentirsi rifiutata dalla neodeputata cittadina grillina? Niente, semplicemente non la pensano nello stesso modo. La grillina si pente, ma questo non vuol dire che abbia compreso nel giusto senso simbolico il valore della stretta di mano.

Ricordo un altro recente analogo episodio che ha fatto clamore: dopo un acceso dibattito televisivo, in cui si confrontavano gli aspiranti alla poltrona di sindaco di Milano, Letizia Moratti con un colpo basso aveva sbiancato Giuliano Pisapia, che, sdegnato, si era rifiutato di stringerle la mano prima di congedarsi. Oppure non si dimenticherà quando, nelle stanze austere della burocrazia europea, il premier belga Elio Di Rupo aveva allontanato con sdegno la mano tesa di Pinuccio Tatarella, perché a suo dire rappresentava quel fascismo vivente che lui voleva morto; in realtà senza sapere davvero chi fosse Tatarella.

Il rifiuto di un gesto tanto semplice come una stretta di mano finisce per fare notizia come un caso politico di rilievo. Con la stretta di mano ci si offre a un semplice contatto fisico per un saluto che assume diversi significati simbolici, dal più affettuoso al più freddo e distaccato. Rifiutarlo è un gesto di esplicita, manifesta ostilità, come se la disponibilità a quell’immediato contatto fisico rappresentasse un inaccettabile compromesso che maschera il proprio disprezzo. Colpisce la nostra immaginazione quando questo rifiuto avviene fra due politici che si trovano a coabitare nella stessa aula parlamentare, nella stessa stanza del consiglio comunale o nelle sale delle assemblee di Bruxelles. Un gesto che, proprio per il suo significato simbolico, testimonia un’aggressività così intensa, immediata e visibile che le parole non riuscirebbero a esprimere con altrettanta capacità di sintesi. In un attimo, l’avversario politico, a cui cavallerescamente si dovrebbe dare la mano, come in fondo accade dalla notte dei tempi, diventa il nemico a cui si manifesta tutta la propria ostilità e disprezzo. Negando il saluto non gli si concede alcuna dignità: politicamente non rappresenta nulla, umanamente è da evitare.

C’è da chiedersi se questo non sia l’ultimo grado della degenerazione della Seconda repubblica e una pericolosa inaugurazione della Terza. Difficile pensare che ai tempi della Prima un Giulio Andreotti si sarebbe rifiutato di stringere la mano a Enrico Berlinguer, che l’ultimo dei peones democristiani non avrebbe offerto, ricambiato, il saluto al collega peone comunista.

Sappiamo che la nostra è l’era digitale, quella di internet e di Facebook: la comunicazione è cambiata radicalmente, viene affidata a una virtualità che ha surrogato tutta la dimensione fisica della relazione, al punto che spesso, quando si passa dal chattare al parlare uno di fronte all’altro, si aprono abissi d’incomprensione. Ma non solo: il privilegio della virtualità fa perdere anche quelle forme elementari di buon gusto che educano il comportamento attraverso la relazione concreta, fisica, con gli altri.

Nel mondo giovanile non fa notizia la mancanza di un’educazione relazionale basata sul linguaggio del corpo: esso appare vecchio, superato dalla rapidità e dall’efficacia di quella virtuale. Ci stupisce invece quando questa educazione viene a mancare laddove sarebbe naturale testimonianza di una civiltà politica. Ci stupisce soprattutto se il rifiuto di una stretta di mano avviene fra protagonisti della politica: in questo atteggiamento c’è qualcosa di irritante e culturalmente inaccettabile. Trasformare l’avversario politico in un nemico è un’odiosa banalità culturale, fin troppo facile da condannare da parte di chi po mano. È una questione di stile che nessun social network può cancellare.

La forma di comunicazione più immediata, quella che subito parla di noi, è il nostro stile, cioè il modo di atteggiarsi, il gestire, il tono di voce, le espressioni del viso. Lo stile si educa, si apprende attraverso l’esempio degli altri e, alla fine, diventa un tratto distintivo della nostra educazione. Dunque, il fatto che un politico (per limitarci a lui) non dia la mano a un collega di altro partito illustra molto bene quale sia la sua cultura democratica, ma la dice lunga anche sulla sua educazione.

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Stefano Zecchi