Psicoanalisi: ma il lettino ci fa bene o ci fa male?
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Psicoanalisi: ma il lettino ci fa bene o ci fa male?

Nella società dell’incertezza si riaccende la rissa sulla psicoanalisi. In palio, l’utilità individuale e sociale. In pericolo, la sua stessa dignità di disciplina

"Cento anni di psicoterapia e il mondo va sempre peggio": per James Hillman, psicoanalista americano scomparso un anno fa, il fallimento della psicoanalisi è inequivocabile. In un secolo non è riuscita a curare il malessere dell’uomo e non ha creato un mondo migliore, anzi "ha perso di vista il mondo esterno".

Ma davvero stanno così le cose? La domanda è ricorrente come le stagioni. Era il 29 novembre del ’93 quando Time pubblicava in copertina una foto in dissolvenza del padre della psicoanalisi domandandosi nel titolo: "Is Freud dead?". Gli attacchi si sono poi succeduti: dal Libro nero della psicoanalisidi Catherine Meyer agli strali dell’ateista Michel Onfray. Elisabeth Roudinesco, la biografa di Jacques Lacan, s’è tuttavia sempre opposta alla marcia funebre per la psicoanalisi. Una scienza umana, secondo lei, ancora in grado di difendere il soggetto dall’invadenza della tecnica e in particolare della tecnica medica.

Dibattito aperto, sta di fatto che sono sempre meno quelli che si stendono sul lettino. Negli ultimi tre anni il calo di pazienti in Italia è stato del 20 per cento. "La crisi della psicoanalisi c’è ed è clamorosa" sintetizza Tonino Cantelmi, psichiatra e psicoterapeuta fondatore della scuola di psicoterapia cognitiva interpersonale. Motivo? "Non risponde alle esigenze di cura e tende a creare dipendenza. Non sono infrequenti casi di analisi che durano decenni. Nessuna delle grandi premesse freudiane peraltro oggi ha senso. Tutto il grande tema edipico, per esempio, è superato: il padre oggi non è il poderoso fantasma dei tempi di Freud".

Il tema dominante semmai oggi è la precarietà prodotta dalla crisi economica. Per questo Donata Francescato, docente di psicologia di comunità alla Sapienza di Roma, invita la psicoanalisi a spostare il suo orizzonte dal romanzo familiare a quello sociale e mediatico. "In un momento di crisi in cui si perde il lavoro e non ci sono prospettive di futuro, è difficile per la psiche lavorare bene. Gli eventi interni non sono scollegati da quelli esterni". La psicologia di comunità si interessa di fattori esterni (situazione sociale e condizionamento dei media) ritenendoli imprescindibili nell’analisi e nella cura. E in questa enfasi sui dati di struttura c’è una critica implicita nei confronti della psicoanalisi, ripiegata su modelli soggettivi e familiari.

La crisi di utenza viene però spiegata dalla società psicoanalitica in maniera più banale rispetto alle accuse di inefficacia: semplicemente molti pazienti non riescono a onorare le spese economiche e scelgono di ridurre il numero delle sedute settimanali. Eppure, c’è una vitalità della psicoanalisi che la crisi non può fermare, come sostiene Claudio Risé, saggista e psicoterapeuta junghiano: "La dichiarazione sul fallimento della psicoanalisi di Hillman è banale. La psicoanalisi non è una scienza politica, non ha mai avuto la funzione di migliorare il mondo e il potere per farlo. Ha però migliorato molti individui trasformandone le pulsioni aggressive, sviluppando in loro l’eros a scapito della pulsione di morte. Poi certo il mondo è cambiato, oggi la vita è più compulsiva rispetto ai tempi di Sigmund Freud e di Carl Gustav Jung. Ma le intuizioni del padre della psicoanalisi restano attualissime, Jung ha avuto il merito di allargare lo specchio d’analisi dal romanzo familiare all’inconscio collettivo, Donald Winnicott di indagare i nessi e i nodi del rapporto fusionale madre-bambino, illuminante rispetto ai risvolti della nostra società pulsionale e tardoconsumistica. Insomma, solo chi non la conosce può buttare via tutta questa esperienza. Piuttosto, la lezione che deriva dal fallimento di tutte le grandi teorie palingenetiche è che il dolore dell’esperienza umana trascende le scuole psicoanalitiche come le varie scienze mediche".

Un’angoscia che secondo Giovanni Reale la filosofia può aiutare a gestire. Reale (La filosofia di Seneca come rimedio ai mali dell’anima edito dalla Bompiani) spiega: "Seneca era uno degli uomini più ricchi di Roma e scopre che la ricchezza non dà la felicità. Ha potere politico e scopre che il potere è un serpente, può rivoltarsi e mordere colui che lo detiene. Ha un’intelligenza poderosa e persuasiva, ma scopre che l’intelligenza gira a vuoto senza una morale che la sostiene. Medita addirittura il suicidio prima della conversione filosofica. E a Lucilio scrive delle lettere su come affrontare la vita. Che assomigliano molto, per tenore, intensità e meravigliosa semplicità, ai moniti dello schiavo liberato Epitteto e ai pensieri dell’imperatore Marco Aurelio. Ecco, senta cosa scrive Marco Aurelio". Il filosofo cita: "'Ci sono mattine che starei volentieri a letto, ma mi alzo, per compiere il mio dovere di uomo'. Di uomo, dice, non di imperatore. Perché essere uomini è il dovere più difficile da imparare". Anche imperatori, siamo sempre dei poveri cristi.

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Riccardo Paradisi