Siamo tutti malati di prestigio
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Siamo tutti malati di prestigio

È di nuovo uno status sociale, ottenuto con merito e trucchi. Un saggio spiega perché, anche se gli esperti storcono il naso

Mai come oggi siamo diventati malati di prestigio. Una rincorsa affannosa a rispolverare master e titoli, sobrietà e una parvenza di educazione anglosassone (se si è prestigiosi, si è educati e a tavola la mano sinistra sta sempre appoggiata sulla gamba e non sul tavolo come ci hanno insegnato). Pacati e understated, meglio se ben nati, ormai nemici assoluti del trash. Il prestigio è sempre più ambito e agognato, ci si spoglia dal silicone e si indossa il loden anche a temperatura tropicale. Siamo diventati malati di prestigio perché abbiamo capito che è necessario, fino a ieri potevamo comprarcelo, era merce qualsiasi. Come si compravano le lauree, le macchine e persino i seguaci sui social network, così si poteva comprare una reputazione. "Il prestigio muore la sera e rinasce la mattina" dice Roberto D’Agostino, l’inventore del celebre sito Dagospia. "È ormai qualcosa fai-da-te, che ci si cuce addosso, ognuno è la propria fiction. E se poi arriva la macchina del fango, tranquilli: basta aspettare la pioggia e si ripulisce tutto" osserva profetico il giornalista.

Ma negli ultimi tempi qualcosa è cambiato e lo dimostra anche un libro di Barbara Carnevali appena uscito per Il Mulino. Laureata alla prestigiosa Normale di Pisa e ora ricercatrice presso l’Institut d’études avancées di Parigi, con il suoLe apparenze sociali, una filosofia del prestigio ha spiegato come il prestigio sia tornato prestigioso: "Il prestigio è la rappresentazione in immagine dello status sociale, è il capitale simbolico, il bisogno di riconoscimento. Fino a diventare effetto collaterale della società dello spettacolo annunciata da Guy Debord".

Per Carnevali l’immagine storica più emblematica è la falange allungata che Anthony Van Dyck metteva nei suoi celebri ritratti, quelli che gli venivano chiesti dai ricchi borghesi dalle mani rozze che lui nobilitava allungandole e rendendole bianche e diafane, come quelle dell’aristocrazia alla quale aspiravano. Oggi il grande pittore fiammingo avrebbe immortalato l’apoteosi del "montismo": cravatte regimental e grisaglie austere, autorevolezza e voce bassa, competenza tecnica e scarsa indulgenza verso i desideri delle masse.

Secondo l’economista e politologo Luca Ricolfi, tutto questo nasconde un’ipocrisia: "Nelle scelte politiche, in Italia, il prestigio ha contato poco o niente. Se ce ne fossimo preoccupati, non avremmo mandato in giro per il mondo personaggi così poco prestigiosi come i leader degli ultimi 20 anni. Il mondo ha cambiato passo, il ceto politico italiano no. Con Mario Monti qualcosa è mutato, anche se a me pare soprattutto un effetto di contrasto: come nello slogan di una vecchia pubblicità, 'è il confronto che convince'. Ha notato, per esempio, Giovanni Sartori che Monti non ha uno speciale prestigio accademico-scientifico, ma è talmente abissale la differenza con la corte dei miracoli che lo ha preceduto (a destra come a sinistra) che egli non può che stagliarsi come figura di altissimo profilo".

La parola, d’altronde, porta con sé un equivoco già dall’etimologia: deriva da "praestigium", gioco di prestigio, illusione, ricorda Maria Bettetini, storica della filosofia allo Iulm di Milano. "Il prestigiatore è un ingannatore e sullo sfondo resta l’idea di un’illusione. Il prestigio non si misura, non si tocca. Più si nomina e meno si ha. Chi ce l’ha veramente non lo dice e chi pensa di acquistarselo, magari con una casa cosiddetta prestigiosa, ha soltanto ottenuto una casa più costosa".

Nell’affannosa corsa ad accaparrarcelo, abbiamo finito solo per interpretare alla perfezione Andy Warhol: bastava apparire ("Andrei a qualunque opening, anche a quello di un wc" diceva l’artista pop) e moltiplicarsi come una delle sue Campbell soup per arrivare al glamour, l’ultima agognata trasformazione mediatica dell’antico valore.

"Il prestigio, prima della rivoluzione francese, era dato dalla nascita e non lo potevi ottenere col denaro»"ricorda il politologo Carlo Galli. "Oggi, in una società dove il merito non conta niente, il prestigio conta sempre di più. Ma è una merce difficile da gestire: è più facile fare finta di essere carismatici che prestigiosi. In America, per esempio, è un concetto troppo aereo per essere preso in considerazione. Steve Jobs era carismatico, di potere, ma di lui non si diceva certo che era prestigioso". E in Italia? "Monti non ha carisma ma è prestigioso. Beppe Grillo è il suo contrario".

L’inganno sta nella sua evanescenza, come mette in guardia il filosofo Giulio Giorello: "Tutto si perde, figuriamoci una cosa così elusiva, impalpabile come questa. Svanisce il conto in banca, perché non dovrebbe svanire anche il prestigio? Una volta poggiava sull’autorevolezza, oggi si scioglie come neve al sole. Quanti prestigi evaporati abbiamo visto negli ultimi anni?".

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Terry Marocco