Il MiArt è cresciuto e si è rifatto il vestito
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Il MiArt è cresciuto e si è rifatto il vestito

Non solo gli artisti emergenti più contesi. Fashion e design scandiscono l’appuntamento milanese con la creatività.

Dal prossimo 28 marzo torna per tre giorni il Mi Art, la fiera d’arte contemporanea di Milano, che nel 2013, dopo due edizioni incolore, ha vissuto l’anno del rilancio. Merito anche di Vincenzo De Bellis, il nuovo direttore, che per il suo secondo mandato ha già raggiunto un obiettivo importante (oltre a quello di avere portato in Italia il meglio dell’avanguardia internazionale): aveva detto che il numero ideale di gallerie per Milano era di circa 150: quelle presenti quest’anno saranno 148.

De Bellis, quali sono i punti forti di questa nuova edizione del Mi Art?
Il primo è senz’altro la qualità delle gallerie, migliorata rispetto allo scorso anno. Avremo molti stand monografici, con nomi che vanno da Mario Schifano e Gianni Piacentino a Liam Gillick e Oscar Tuazon. I galleristi stranieri questa volta saranno 60, dieci in più del 2013. Che cosa si intende per qualità?
Se si tratta di Novecento tutto dipende dalla posizione che l’artista in questione occupa nella storia. E quando invece si parla di giovani?
In fiera ci saranno gli artisti più contesi. Chiunque provi a comprare certi nomi si renderà conto di quanto le opere siano difficilissime da ottenere, anche per i collezionisti più esperti e stimati.

Molti sostengono che le fiere d’arte in Italia siano troppe. Lei è d’accordo?

Sono tante, ma penso anche che Miano offra obiettivamente l’ambiente migliore. È la città con più gallerie, più collezionisti, e quella dove vivono più artisti.

Come saranno le fiere del futuro?
Le grandi, ovvero le fiere cosiddette "corporate", saranno sempre più grandi, e quelle piccole sempre più specializzate. Qualcuno crede anche che le fiere d’arte diminuiranno di numero. Io penso invece che nei prossimi anni il numero sia destinato a crescere, per esempio in Sud America e in Africa. Dopotutto nel calendario dell’arte c’è ancora molto spazio libero.

Dopo due anni alla guida del Mi Art, qual è l’errore che ha imparato a non fare?

Quello di cercare di applicare modelli già esistenti. Ogni ambiente ha le sue specificità, che vanno messe a frutto.

A quale pubblico si rivolge oggi il Mi Art?
Non solo a quello degli appassionati d’arte, visto che Milano è una città con molte vocazioni creative. Perciò abbiamo voluto dare più spazio al design e alla moda. Quest’ultima sarà una sorta di basso costante nel ciclo di conferenze che affiancherà le giornate della fiera.

I giovani artisti italiani faticano parecchio. C’è ancora spazio per loro?

Spero di sì, nonostante il momento sia per loro molto difficile.

Da dove si riparte?
Dalla formazione. Nel settore delle arti il nostro sistema educativo è vecchio, arretrato, poco competitivo rispetto a realtà straniere come quelle inglesi, francesi, tedesche o statunitensi.

Se la sente di mandare un’indicazione al neoministro dei Beni culturali Dario Franceschini?
Gli direi di non trascurare il presente. Conservare è giusto, ma bisogna anche tornare a produrre patrimonio. Altrimenti nel futuro cos’avremo da conservare.

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Stefano Pirovano