Álvaro Siza, soltanto la lentezza ci salverà
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Álvaro Siza, soltanto la lentezza ci salverà

"Stiamo pagando la fretta nel costruire" dice il grande architetto che il 29 agosto sarà premiato alla Biennale. Panorama l'ha intervistato

di Maddalena Bonaccorso

Matita, righello e i Beatles in sottofondo: l’architetto Álvaro Siza, vincitore del Leone d’oro alla carrieradella 13ª Mostra internazionale di architettura della Biennale di Venezia, lavora così, con i suoi tempi lenti e i suoi spazi di luce e di immaginazione. Dall’amato Portogallo ha seguito tutte le metamorfosi dell’architettura mantenendo la ferma coerenza delle idee semplici e lo sguardo incantato della marginalità. E non per nulla ha avuto in dono dal presidente della Biennale, Paolo Baratta, una delle più belle motivazioni di assegnazione del Leone d’oro che si ricordino: "Protetto dalla sua collocazione isolata, emana una saggezza universale".

Sempre disponibile e affabile, Siza ha fatto del low profile il segno distintivo di una vita e ora è affranto perché una brutta frattura mette in forse il suo viaggio a Venezia. Ma la felicità è più forte.

Che sentimenti ha provato alla notizia di avere vinto questo premio, e a leggere le parole di Baratta e del direttore David Chipperfield?
"Grande emozione, felicità pura. Intanto perché amo molto l’Italia, dove ho passato tanto tempo; e poi perché la motivazione riconosce un valore aggiunto, per la mia architettura, derivante dal fatto che vivo da sempre all’estremità dell’Europa. Pur viaggiando molto per creare, forse ho saputo e potuto fare di questo isolamento creativo un’opportunità, piuttosto che un limite".

Luce, tempo, spazio: sono questi i tre elementi fondamentali del suo lavoro?
"Sì, tutti pilastri della mia architettura. Ma il tempo è importantissimo, perché la velocità del nostro mondo e il non rispettare i ritmi vitali dei progetti hanno portato l’architettura non solo ad allontanarsi dalla gente, ma anche a costruire troppo e male. Questo modo di fare ha avuto conseguenze terribili, sia sull’economia sia sulla società. C’è uno stretto rapporto fra questa fretta di costruire e speculare e il costo sociale e qualitativo della vita".

Lei quindi rivendica il diritto e dovere dell’architetto di lavorare con tempi lenti e ragionati.
"Proprio così. E agli elementi che lei citava prima, ai miei pilastri, aggiungerei la storia: perché io credo molto nella continuità con il passato. Una continuità che però non sia formale, bensì quasi spirituale. Continuità nell’essenza, ecco. L’architettura deve avere capacità di dialogo con il passato e con il presente e sapersi immaginare nel futuro. Le città che hanno architetture di diverse epoche, e mescolanza di generi, aggiungono qualità al loro vivere".

Le mescolanze eccessive non pregiudicano la visione totale della città?
"Dipende. Certo, questo è un rischio. Ci vuole architettura di qualità e pensiero d’insieme. E soprattutto non bisogna cercare a tutti i costi, quando si viene chiamati a intervenire in centri urbani, sia antichi sia moderni, di mantenere lo stile precedente, perché quello ovviamente negli anni cambia. Bisogna invece cercare di fare integrare fra loro i linguaggi architettonici".

Come il museo Mimesis in Corea del Sud che ha la forma di un gattino accucciato...
"Mi è piaciuto molto progettarlo. Ho preso spunto da un’antica leggenda dedicata al gatto coreano e ho voluto dargli questa forma arrotolata, con un rapporto speciale fra interno ed esterno. E poi la Corea del Sud è un paese meraviglioso, dove ancora si respira una bella aria di ottimismo e di speranza nel futuro. Lavorare lì è come un bagno di felicità".

E in Europa, invece?
"Qui la situazione è tremenda. Manca il lavoro architettonico di qualità, anche in paesi che hanno sempre tenuto molto a questo. Ci sono nazioni dove ancora si costruisce qualcosa di buono, ma sempre meno, e solo icone, realizzazioni di prestigio. Se non sono icone, allora si costruisce male. E va sempre peggio. I Paesi Bassi e la Francia, che hanno sempre tenuto molto all’architettura, adesso subiscono un tracollo. In Italia invece non si costruisce male, semplicemente non si costruisce più. Però questo forse è il male minore".

A proposito, che ne è stato del progetto che ha regalato quattro anni fa al Comune di Milano, dedicato a corso Sempione?
"Purtroppo penso che non si farà. Corso Sempione sarebbe dovuto diventare, secondo la mia idea, un boulevard alberato, lasciando alle auto solo le corsie laterali; doveva essere un progetto per l’Expo 2015. Non so più niente di questo progetto. E mi dispiace molto".

Ma lei in Italia ha avuto le sue soddisfazioni. Ha restaurato la Chiesa Madre del Comune di Salemi e la piazza antistante; e ha pure curato il progetto per la riqualificazione di Palazzo Donnaregina, ora sede del Museo Madre di Napoli. Ne è soddisfatto?
"Sì, anche perché il Madre è stato il primo museo per l’arte contemporanea realizzato nel pieno centro storico di una città. E poi in entrambi i casi so che la gente del luogo ha apprezzato i lavori; e l’amore della gente per le mie opere è per me sempre il metro di tutto. Se le persone non vivono le nostre creazioni, non le sentono proprie e non vi si legano, noi architetti abbiamo fallito".  

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