Irina Antonova, guida di ferro del Puskin: "Di Guttuso i ricordi più belli"
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Irina Antonova, guida di ferro del Puskin: "Di Guttuso i ricordi più belli"

Nel centenario del Museo moscovita intervista alla donna più famosa della Russia. Su di lei il sospetto che abbia collaborato con l'Armata Rossa per portare via da Berlino opere d'arte tedesche. "È una leggenda metropolitana"

Il 2012 per il Museo Puskin di Mosca è un anno importante, irripetibile. Celebra due anniversari tondi: i 90 anni della direttrice e 100 anni, una decade in più, di vita dello stesso Museo.
Gli anni trascorsi da Irina Antonova alla guida del Puskin sono effettivamente molti: 67 e 5 mesi. Eppure, a giudicare dalla puntualità con cui arriva per l’intervista, dalla massa di documenti accatastati con ordine nello smisuratamente lungo tavolo delle riunioni, dalle continue telefonate di vice-ministri ed uomini del potere economico e culturale della Russia, è evidente che è la donna più famosa della Russia. E quando viene stuzzicata, chiedendole se è vera quella che si affretta a definire una "leggenda metropolitana", cioè la sua presenza a Berlino quando l’Armata Rossa cominciò a trasferire in Urss opere d'arte definendole "riparazioni di guerra", Irina Antonova con determinazione e straordinaria efficacia ricostruisce tutti i suoi movimenti per dimostrare che in quel periodo non poteva essere in Germania.

Come ricorda il primo giorno in cui ha cominciato a lavorare nel Museo Puskin, uno dei più importanti della Russia e del mondo?
Era l’aprile del 1945: quando sono arrivata al museo, mi sono trovata di fronte a condizioni difficilissime. Durante la guerra era stato gravemente danneggiato. Il tetto era distrutto: era di vetro e tutto crollato. Il museo era pieno di scatoloni perché stavano ritornando le opere d’arte che durante la guerra erano state evacuate in Siberia, a Novosibirsk. Insomma, l’intero edificio si trovava in uno stato penoso. Il nostro gruppo, in fin dei conti, era relativamente piccolo. Ci siamo rimboccati le maniche. È vero, sono stata impressionata moltissimo dal clima del museo, dalla sua atmosfera, perché ovunque c’erano pareti di marmo, dominava pietra… E ho pensato: "Qui non lavorerò a lungo!". È andata diversamente, ci sono rimasta per tutta la vita. Qui ho vissuto stagioni indimenticabili, cambiamenti epocali e personaggi che hanno avuto un ruolo straordinario nella cultura mondiale. E numerosi politici di tutti i paesi.

Ha mai incontrato Stalin?
No, no. L’ho visto solo sulla Piazza Rossa. In quel periodo andavamo alle manifestazioni perché era l’epoca in cui tutti noi dovevamo andare a manifestare… Lui se ne stava in tribuna. È li che l’ho visto. Mi sembra un paio di volte. Salutava con la mano e basta. Dal vivo non l’ho mai incontrato. Anche se nel museo, dalla fine del 1949 al 5 marzo 1953, il giorno in cui è morto, veniva allestita la mostra dei regali che venivano fatti a Stalin. Perché dal 1949, quando ha compiuto 70 anni, ogni anno in questa ricorrenza sono cominciati ad affluire regali da tutte le parti del mondo, compresa l’Italia. Sono arrivati, per esempio, anche dei quadri di Renato Guttuso: alcuni suoi quadri sono rimasti nel museo. Molti regali arrivavano dalla Cina, anche se si può dire che erano rappresentati tutti i paesi del mondo. Poteva trattarsi anche di un semplice chicco di riso sul quale veniva disegnata un’immagine. Resta il fatto che tutto il museo, tutte le collezioni, venivano trasferite negli scantinati e tutti gli spazi venivano dedicati a questa  mostra. Per molto tempo avevamo il terrore che il museo fosse chiuso definitivamente per lasciare spazio ai regali di Stalin. Ci trasformeranno nella sede permanente di questa mostra dei regali e ci sposteranno da qualche altra parte, sussurravamo. Erano tempi duri. Avevano cominciato a licenziare gran parte del nostro personale dal momento che il museo non funzionava più: era aperta solo la mostra dei regali per Stalin.

Come è cambiato Museo Puskin dopo che lei è diventata direttrice?
Mi trovavo di fronte problemi gravissimi. Le condizioni dello stesso edificio restavano estremamente gravi. Nel primo anno sono cominciate infiltrazioni d’acqua dal tetto. Il museo era praticamente allagato. Il rischio del crollo delle strutture metalliche era sempre più reale. Per questo motivo ci siamo rivolti a una società che si chiamava StalMontazhKonstruktsija. Per prima cosa ci hanno costretto a chiudere tutto il secondo piano. C’era un pericolo, un pericolo vero. La trattativa con il governo per avere i soldi è stata estenuante: il museo stava per chiudere, mi sono rivolta a tutti, ministri, comune, banche. Alla fine mi sono fatta coraggio e ho scritto una lettera disperata al primo ministro Kosyghin. Nella lettera, dopo avere descritto tutta la situazione, ho concluso con queste parole: "Aiutateci, salvate il Museo". Sorprendentemente la risposta è arrivata proprio il giorno dopo. La mia lettera era arrivata alla Furtseva, il ministro di cultura di allora, ed è stata proprio lei a dare la direttiva di non far morire il Puskin, di sistemarlo. Questa epopea è durata circa 4-5 anni. Alla fine il Museo è stato sistemato. Finalmente!".

Quale era il ruolo di un Museo nel periodo sovietico? Quando il Museo si è imposto come centro di dialogo?
La vera svolta è avvenuta all’inizio degli anni 70. Solo pochi si sono resi conto che gli Accordi di Helsinki hanno avuto un ruolo straordinario nel trasformare il ruolo del museo. In quel periodo, il Puskin ha cominciato a trasformarsi in una specie di centro del dialogo internazionale. Un processo che si è concluso solo nei giorni nostri. In realtà avevamo avuto dei segnali anche qualche tempo prima. Basta pensare che nel 1955, prima di restituirla, abbiamo organizzato la mostra della collezione della Galleria di Dresda. Esporre al pubblico sovietico opere come la Madonna Sistina è stato il punto di partenza di un processo straordinario. Nel 1956, inizio del primo disgelo, abbiamo allestito la mostra di Picasso. Da questo momento sono cominciate le mostre. Prima abbiamo cominciato a lavorare moltissimo con la Francia, poi con l’America, con l’Italia e, infine, con quasi tutti i paesi del mondo.

Infine è arrivata la Perestrojka. Come ha vissuto quella stagione?
Fin dall’inizio abbiamo accolto la Perestrojka con un entusiasmo enorme perché ci rendevamo perfettamente conto del fatto che il regime esistente era arrivato al capolinea. Non nascondo che, in un certo senso, anche noi abbiamo dato un contributo non irrilevante alla nascita della Perestrojka. Anche in questo caso c’è una data ben precisa: la mostra del 1981 "Mosca – Parigi". Abbiamo colto al balzo l’occasione per mostrare per la prima volta al pubblico una grandissima quantità di quadri di pittori mai esposti prima, come Kandinskiy, Filonov, Malevich. Credo che l’abolizione delle barriere ideologiche sia stato il più grande contributo della Perestrojka. Purtroppo, dal punto di vista economico, non ha dato gli stessi risultati, non è riuscita ad indicare la strada giusta per lo sviluppo del paese. Tuttavia, il fatto stesso che siano state abolite queste barriere ideologiche, per noi, per il Museo, ha avuto un’importanza unica dal momento che i nostri interlocutori si trovavano all’estero e avevamo investito molto sull’arte moderna.

Quale evento, organizzato da lei al Museo Puskin, le ha lasciato il ricordo più bello?
Certamente la mostra della collezione di Galleria di Dresda. È stato un evento veramente sconvolgente. Durante la guerra non abbiamo mai visto questi quadri e, all’improvviso, tutte queste opere meravigliose. È stata una grande impressione. Anche la mostra di Picasso del 1956  ha suscitato emozioni indimenticabili perché, anche lui, non lo avevamo mai visto prima. Poi tutte le grandi mostre a Parigi, Milano, New York… Se invece parliamo della vita all’interno del Museo, senza dubbio sono state "uniche" le mostre "Mosca – Parigi" e, subito dopo, "Mosca – Berlino". Finalmente abbiamo potuto dire a voce alta quello che pensavamo, parlare di nuovo anche del periodo di Stalin. La mostra ha esposto molte opere anche di quel periodo. In realtà, allora non ce ne rendevamo conto, il punto di partenza è stato il 1961, quando abbiamo capito che il nostro edificio non ci bastava più, non c’era più lo spazio sufficiente per il personale, le lezioni, il lavoro. Abbiamo cominciato a "ricevere" i palazzi in cattive condizioni intorno al Museo. Il risultato è stato che dopo aver ricevuto nel 1961 il primo palazzotto, da allora abbiamo conquistato altri 28 edifici. Da questa data è cominciata la creazione della Città Museale che fino ad oggi non è stata ultimata.

Nel centro di Mosca, la città più cara del mondo! Possibile che nessuno dei “nuovi ricchi” abbia tentato di creare ostacoli?
Una fitta corona di vecchi edifici moscoviti che, forse, dal punto di vista architettonico, non hanno un valore particolare, ha invece un’importanza straordinaria, è senza dubbio importantissima per ricreare l’atmosfera della Vecchia Mosca. Noi li abbiamo semplicemente salvati, li abbiamo restaurati, abbiamo dato loro una seconda vita. In questi edifici abbiamo trasferito vari dipartimenti: XIX-XX secolo, Museo delle Collezioni Private, Centro per Ragazzi, Centro di Grafica. Tutti questi edifici sono collocati intorno a noi, circondano la sede principale. Attualmente questa attività impegna grande parte del mio tempo. Non intendo mollare perché lo ritengo molto importante.

Lei è riuscita a trasformare il museo in centro della cultura mondiale. Ha ospitato e ospita tuttora i più grandi musicisti, registi, artisti. Chi, tra queste persone, ricorda con maggiore simpatia?
Al primo posto, ovviamente, c’è Svjatoslav Richter. Proprio con lui abbiamo dato inizio a questa attività che consisteva nell’aprire il Museo alla musica. Era un vero amico, abbiamo lavorato insieme per tanti anni. Quest’anno saranno 32 anni che organizziamo "Le Serate di Dicembre". Oltre ai musicisti più importanti frequentavano il nostro Museo grandissimi scienziati, artisti. Vedevamo spesso Petr Leonidovich Kapitsa, un grande fisico, con il quale, insieme a Richter, si creava un’atmosfera particolare. Il Museo ha avuto inoltre rapporti intensissimi con i poeti Andrey Voznesenskiy, con Evtushenko, con Bella Akhmadulina, con il pittore Boris Messerer. Questi erano le persone nostre, gli amici del Museo. A cominciare dagli anni '70 abbiamo organizzato nel Museo letture scientifiche. Venivano a parlare nel nostro Museo quegli scienziati che non potevano essere pubblicati. Come Sergey Averintsev, una figura molto importante (un grande filologo specializzato in storia e teoria della della letteratura; poeta e traduttore legato alla chiesa ortodossa russa, Presidente della Società biblica della Russia. Abbiamo organizzato i cosiddetti "mercoledì" dedicati ai dibattiti aperti tra il pubblico e personalità del mondo scientifico, come Averintsev, Aleksey Losev (uno dei maggiori filosofi russi), Pyotr Zinchenko (uno dei maggiori rappresentanti della Scuola di Psicologia di Kharkow, allievo di Lev Vygotsky, noto per la sua pionieristica ricerca dedicata alla memoria involontaria)  e molti altri...

Tra  gli artisti, i pittori, chi ricordate con maggiore affetto?
Non c’è dubbio che noi, il nostro Museo, ha avuto un legame straordinario con Guttuso. È ancora vivo il ricordo dei legami con lui. Amavamo Renato, lui ci ha regalato i suoi quadri, ma lo amavamo non per questo, ma per la sua libertà di pensiero. Era molto vicino alle nostre idee. Potevamo capirci al volo.

A parte Guttuso?
Guttuso, ma anche Giacomo Manzù. Io facevo parte del suo Gruppo in Italia. Abbiamo lavorato molto anche con lo scultore Emilio Greco. Lavoriamo molto anche con i dirigenti dei musei italiani. Ovviamente, per esempio, stimo tantissimo l’attuale direttore dei Musei Vaticani, Antonio Paolucci, che, tra l’altro, prima lavorava a Firenze. È una persona eccezionale con la quale ci siamo trovati sempre molto bene. Ho avuto anche un rapporto molto costruttivo con Rodolfo Pallucchini che ho incontrato sia da noi che in Italia, quando nel 1960 ero il commissario del Padiglione Sovietico alla Biennale. È li che ho conosciuto Pallucchini, una persona eccezionale.
Molto intensa è stata la collaborazione con Leonardo Mondadori con il quale abbiamo organizzato la straordinaria mostra "Da Monet a Picasso" nel Palazzo Reale di Milano e la pubblicazione in sei lingue del catalogo del Tesoro di Troia scoperto da grande archeologo tedesco Schliemann.

È ancora convinta che il Tesoro non vada restituito?
Ho la mia posizione, l’ho sempre avuta e non l’ho mai cambiata. È la mia posizione! Sono consapevole che questa mia posizione abbia avuto un suo effetto sull’opinione dei nostri dirigenti. Ma non era solamente la mia posizione, è stata condivisa da moltissime persone e, forse, non era affatto facile non tenere conto della loro opinione.

Quando ha deciso di affidare a Norman Foster lo sviluppo architettonico della Sua Città-Museo?
Conoscere Norman Foster è stato sorprendente. È uno dei più grandi architetti inglesi. Dopo averlo incontrato in Inghilterra, a Londra, egli è venuto a Mosca. Gli ho fatto conoscere il nostro quartiere e solo dopo è nata l’idea di instaurare una collaborazione, di affidargli il compito di fare un progetto. Ho visto le sue opere in diverse città del mondo, a Washington, a Londra, a Boston, a Nîmes nel sud della Francia. Penso che lui riesca a creare un dialogo molto interessante  tra la vecchia e la nuova architettura.

Da decenni è considerata la donna più famosa della Russia. Che sensazione prova?
Ma non sono per niente la più famosa! E allora la Tereshkova, la prima donna-cosmonauta? Poi abbiamo una marea di artiste famosissime, come la Obraztsova che cantava a La Scala, la conosce, no? Ma no, abbiamo delle donne meravigliose, fortissime! Io non sono famosa. Nell’ambito della cultura, nel mondo museale sì, ma in generale la Russia ha donne che hanno grandi meriti!

Non so se sia vero o falso, ma si dice che nell’immediato dopoguerra lei sia andata in Germania…
Non ci sono andata né durante né dopo la guerra. Ho vissuto in Germania da piccola nella prima metà degli anni Trenta. Avevo 8-9-10 anni e mio padre lavorava all’ambasciata. È per questo che parlo tedesco molto bene. Quando Adolf Hitler è arrivato al potere abbiamo fatto le valigie, siamo tornati a Mosca e, dopo la guerra, non ci sono più tornata.

Quindi lei non ha portato in Urss i quadri dei musei berlinesi?
È una legenda! Ho pubblicato addirittura un articolo, sul Frankfurter Allgemeine Zeitung, per precisare che in quei tempi non ero in Germania. Esiste una fotografia dove io sono ritratta in mezzo agli scatoloni delle collezioni della Galleria di Dresda. Questa foto è fatta davanti al nostro Museo. Era l’agosto del 1945 e, come tutti gli altri giovani che lavoravano al museo, sono stata incaricata di portare gli scatoloni di qua e di là. Capisce? È nata così la legenda secondo la quale sarei stata inviata in Germania a scegliere le opere da portare in Urss. In realtà io mi trovavo a Mosca! Aggiungo che, se fosse stato vero, l’avrei già detto. Mi sarei sentita addirittura fiera di aver portato in Russia le collezioni della Galleria di Dresda. Ma non è così.

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Francesco Bigazzi