Arte: a Spoleto si espone solo il fatto a mano
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Arte: a Spoleto si espone solo il fatto a mano

Né installazioni, né video: pittura e materia per 10 creativi spiazzanti

Opere fatte a mano: questo significa nessuna virtualità o riproducibilità, ma lavorazione fisica, gestione materiale, opera sensuale. È il filo che lega artisti diversissimi l’uno dall’altro, ma che funzionano alla grande in quella che più che una collettiva è una struttura di 10 personali curata da Vittorio Sgarbi a Spoleto. Fino al 15 luglio, sotto il marchio e il titolo di Spoleto arte, nel bel Palazzo Racani Arroni (sta sulle scale che scendono verso il Duomo) non troverete nemmeno una foto o un video obbligatori, ma quadri, sculture, ceramiche. Il tutto su tre piani e beneficiando di spazi ritagliati come appartamenti.

Al piano nobile c’è il pittore Fausto Pirandello, il geniale figlio di un genio (Luigi) che ai sette romanzi del padre aggiunse i suoi, perché in fondo il corpo è il vero romanzo della pittura: è il genere fondamentale che più richiede bravura, trama esistenziale, coraggio. In questo senso si capisce come di coraggio Fausto ne avesse parecchio, martirizzando nudi antigraziosi e umanissimi la cui forza anticipatrice avrebbero dovuto riconoscere sia Lucian Freud sia Jenny Saville. Se i corpi di Pirandello sembrano fatti di minerale iridescente, i vasi, le lampade e i piatti in resina di Gaetano Pesce, il più fantasioso dei nostri designer, ci danno la sensazione di ritrovarci in una serra, all’apice di una fioritura tropicale.

È sintonizzato con quest’habitat Gillo Dorfles. Ultracentenario papa (la sua laica, ironica vanità lo aiuterà a sopportare la nomina) dei critici d’arte italiani, Dorfles si presenta con la freschezza di un allegro ragazzo fauve, mostrando coloratissime ceramiche che, realizzate con il laboratorio Canepa & Pacetti di Albisola, sarebbero piaciute a uno come Roland Barthes. Poi c’è una sequenza di follie: quella di Piermaria Romani, da Stienta, che cataloga i suoi concittadini ritraendoli a uno a uno; quella surrealista del fiorentino Patrizio Mugnaini e quella di un russo, Michail Dolgopolov, che sogna la nostra tradizione e riveste in pelle classicissimi bronzi. Infine ecco Franco Vitelli: esegue pavimenti mosaicati come nell’Italia del Dugento, più folle di così.

Dediche: mentre Maria Savino omaggia il nero di Alberto Burri riaprendolo come una ferita, la mostra omaggia i maestosi sguardi e i volti colossali eseguiti da un formidabile pittore figurativo come Andrea Martinelli. È tutto? No, mancano l’oro della stilizzazione mistica, il gesto perfetto e tutte le misteriose vibrazioni che si irradiano dalle arcane stravaganze di Gino De Dominicis. Perché qui si rende onore a lui, artista maggiore (con Domenico Gnoli) del secondo Novecento italiano. Giù il cappello.

(M.D.C.)

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