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ANSA/FABIO CAMPANA
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Perché difendo Gabriele Muccino

La querelle su Pasolini cineasta e un profilo Facebook bersagliato da insulti. Molto difficile confrontarsi civilmente e rispettare le idee degli altri

La premessa è che considero Accattone un capolavoro, forse il film italiano più bello di sempre. È l’esordio di Pier Paolo Pasolini nel cinema, arrivato nel ’61 dopo due romanzi come Ragazzi di vita e Una vita violenta.

Umanità sottoproletaria nella periferia romana sulle macerie del dopoguerra. Via Crucis pagana. Metafora in bianco e nero nel linguaggio cinematografico quasi primitivo trasferito sulla magnifica fotografia di Tonino Delli Colli.

Neorealismo superato in una dimensione “iper”. Subito dopo, nell’opera cinematografica di Pasolini, mi piace depositare Il Vangelo secondo Matteo, altra Via Crucis, segnale religioso immenso tra le rupi lucane, potenza laica, ribellione contro l’ingiustizia e l’arroganza dei potenti.

Gabriele Muccino sul suo profilo Facebook ha scritto:

“(…) per quanto io ami Pasolini pensatore, giornalista e scrittore, ho sempre pensato che Pasolini regista fosse fuori posto, anzi, semplicemente un "non" regista che usava la macchina da presa in modo amatoriale, senza stile, senza un punto di vista meramente cinematografico sulle cose che raccontava, in anni in cui il cinema italiano era cosa altissima, faceva da scuola di poetica e racconto "cinematico" e cinematografico in tutto il mondo. In quegli anni Pasolini regista aprì involontariamente le porte a quella illusione che il regista fosse una figura e un ruolo accessibile a chiunque, intercambiabile o addirittura improvvisabile. La dissoluzione dell'eleganza che il cinema italiano aveva costruito, accumulato, elaborato a partire da Rossellini e Vittorio de Sica per arrivare a Fellini, Visconti, Sergio Leone, Petri, Bertolucci e tanti, davvero tanti altri Maestri, rese il cinema un prodotto avvicinabile da coloro che il cinema non sapevano di fatto farlo. Non basta essere scrittori per trasformarsi in registi (…)”.

Di qui, si può immaginare, una polemica disumana, alimentata da quella zona oscura di Facebook che confina con la barbarie e rinnega il senso della critica strutturata. Muccino, anche tra voci di consenso, è stato ricoperto di insulti.

Il suo profilo bloccato poi riattivato. Rifletto, pure in civile parziale dissenso artistico sul tema con l’amico Gabriele: è questo un Paese dove ci si può ancora confrontare serenamentesulle idee, sulla cultura, sulla società, ciascuno con la propria opinione?

E dove si possono discutere le forme e le funzioni dei totem e di tutto ciò che l’establishment  intellettuale ha fissato come intoccabile in una sorta di santificazione? La risposta, evidentemente, è no.

Perciò, al di là delle nostre rispettive posizioni, difendo Muccino. Perché credo che una delle poche cose per le quali valga la pena battersi, oggi, sia la difesa delle opinioni di ciascuno e della libertà di esprimerle senza essere crocifissi.

Senza ascoltare le urla o leggere cafonate e oltraggi beceri di chi semplicemente non è d’accordo. Anche su un social come Facebook  che non è marginale perché è entrato nelle nostre vite sostituendosi al linguaggio parlato e creando una nuova forma di comunicazione. Che, spesso, dà spazio all’ignoranza.

E all’invettiva gratuita. Non certo quella, consapevole, della provocazione culturale. Forse, per dirne una, con Facebook  il Futurismo non sarebbe mai nato.

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Claudio Trionfera

Giornalista, critico cinematografico, operatore culturale, autore di libri e saggi sul cinema, è stato responsabile di comunicazione per Medusa Film e per la Mostra del cinema di Venezia

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