Paolo Villaggio, buon compleanno a un genio chiamato Fantozzi
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Paolo Villaggio, buon compleanno a un genio chiamato Fantozzi

Il 30 dicembre il grande artista genovese compie 80 anni. Il suo personaggio più popolare, il ragioniere più sfortunato del mondo, ha cambiato la storia del cinema e del costume. Perché, in fondo, c'è qualcosa di lui in ognuno di noi

Per provare a immaginare che tipo è Paolo Villaggio (non il personaggio pubblico, ma l'uomo) basta ricordarsi il titolo di un suo libro autobiografico uscito nel 2002: Vita morte e miracoli di un pezzo di merda. Un segnale eloquente del carattere dell'autore, un uomo al quale, così a occhio, piaggeria e frasi di maniera fanno piacere come una colica renale. Un nemico giurato della retorica e del buonismo, sempre pronto a mandare a farsi fottere quelli (e sono tanti) che non gli vanno a genio.

Trattandosi però di uno degli italiani più popolari del XX secolo, ci perdonerà se non passiamo sotto silenzio un suo compleanno storico, l'ottantesimo, che cade il 30 dicembre. Non se la prenda, Paolo: non lo facciamo per lei, ma per noi stessi, come se bastasse intrufolarsi nella vita degli altri per gustare ancora una volta, tutti insieme, i bei momenti che ci hanno fatto vivere. Chiariamo subito una cosa: qui non si parla di arte, né di talento. Si parla di genio, se con questa parola identifichiamo l'intuizione che cambia la vita di chi ce l'ha, ma anche quella di tutti gli altri. Insomma, qui si parla di una cosa e di una cosa soltanto: Fantozzi. E chi se ne frega se Villaggio ha lavorato con i più grandi maestri del cinema italiano: Fellini, Monicelli, Ferreri, Olmi. Chi se ne frega se, prima di approdare al cosiddetto cinema d'autore, ha sfruttato la fama ottenuta grazie al suo scalcagnato ragioniere per girare (anche) pellicole di nessun valore, che lui stesso ha definito film di merda (ultimamente dev'essere un po' fissato con le similitudini escrementizie).

L'unica cosa che conta, almeno per me, è l'immortalità di un personaggio che non solo ci ha fatto morire dal ridere, ma è entrato nella vita di tutti lasciando intuire fin dal primo momento che non se ne sarebbe più andato. Un perdente di successo che ha cambiato il linguaggio, il costume, il modo di ridere e di pensare di almeno tre generazioni. Fantozzi è dappertutto: nel dizionario della lingua italiana (dove fantozziano sta per catastrofico, patetico) e nelle previsioni del tempo, quando si parla di nuvoletta dell'impiegato. Negli organigrammi delle aziende, dove i pezzi da novanta vengono ormai definiti direttori megagalattici, e nel design che propone poltrone che, se particolarmente costose, richiamano alla mente di tutti quelle di pelle umana, che nei film della saga arredavano gli uffici dei manager di primo livello.

Lo sapevate che, inizialmente, Villaggio non aveva nessuna intenzione di "diventare" Fantozzi sul grande schermo? Gli bastava averlo inventato: protagonista nel 1968 di alcuni sketch televisivi del programma Quelli della domenica, e di una serie di pezzi satirici pubblicati dal settimanale Europeo, lo sfortunatissimo Ugo diventa infine una creatura libraria: il successo travolgente del volume Fantozzi (esce nel 1971 e vende un milione di copie) fa sentire ai produttori odore di soldi, e così nel 1975 il libro diventa film. Villaggio avrebbe voluto che a impersonare il suo antieroe fosse Ugo Tognazzi o, in seconda battuta, Renato Pozzetto; quando, incassati i no dei due colleghi, si "rassegna" a occuparsene personalmente, non può immaginare che lo attende l'immortalità.

Sceneggiato con due mostri sacri come Leo Benvenuti e Piero De Bernardi, autori tra l'altro dei film di Don Camillo e di Amici miei, diretto da Luciano Salce, il film fa soldi a palate e avvia una serie che durerà fino al 2000 inanellando ben dieci titoli: gli ultimi sono francamente orribili, ma i primi tre (il capostipite Fantozzi, Il secondo tragico Fantozzi e Fantozzi contro tutti) sono sublimi, al livello di Mel Brooks e dei Monty Python. Non sono tanti i film in cui ogni scena diventa di culto, ma in questa trilogia l'impresa si realizza: come dimenticare la partita a biliardo con il direttore del personale, la trasferta al casinò di Montecarlo, la gara ciclistica, il campeggio, la settimana bianca organizzata da Filini e, soprattutto, il cineforum aziendale che provoca la rivolta delle maestranze e un giudizio passato alla storia del cinema: "Per me La corazzata Kotiomkin è una cagata pazzesca!".

Guai, però, a liquidare le peripezie del povero Ugo come semplice comicità. Dentro c'è molto di più: uno sberleffo spietato che non risparmia nessuno, e scopre il bluff della società italiana con una ferocia che fa impressione. Hai voglia a farti beffe di Fantozzi, della sua casa orribile e pacchiana, della moglie racchia, della figlia deforme. Puoi sghignazzare quanto vuoi del suo abbigliamento improbabile, della sua timidezza ingigantita da una sequela desolante di fallimenti. La verità, però, è che spesso Fantozzi sei tu, con la tua voglia di piacere ai potenti, di fare il cretino con la collega un po' meno brutta delle altre, di illuderti che la vacanza alla moda o la cena chic ti faranno sentire un po' meno inutile. Puoi illuderti quanto ti pare di essere migliore di lui, ma in fondo vi assomigliate più di quanto vorresti ammettere.

Ecco perché, secondo me, Paolo Villaggio ha fatto qualcosa di grande, raccontando l'Italia meglio dei rapporti del Censis. Alla faccia di quelli che dicono: "Io non guardo Fantozzi, mi fa troppa tristezza!". Sono gli stessi che, quando si parla di lotta al cancro, fanno le corna e poi cambiano argomento. Troppo comodo: i Fantozzi esistono, e ci ricordano come non vorremmo essere.

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Alberto Rivaroli