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L’ordine delle cose, i migranti e la Libia al cinema – La recensione

Nel film di Andrea Segre la storia “profetica” di un accordo italiano con Tripoli sulla riduzione dei flussi. E un occhio sull’allarme umanitario

Chiamale, se vuoi, profezie. Quelle che ogni tanto riesce a formulare il cinema a furia di registrare e testimoniare la realtà fino, addirittura, ad anticiparla. Succede di rado, ma succede. Per esempio accade con L’ordine delle cose (in sala dal 7 settembre, durata 1h 55’) di Andrea Segre, autore significativamente sospeso tra documentario e cinema di finzione – Io sono Li il suo film più conosciuto, finora – con sensibilità speciali per i fenomeni di marginalità e migrazione, sempre studiati e approfonditi in piena consapevolezza e profondità d’informazioni.

Non è poi tanto strano, allora, che la storia di oggi sia quasi la fotocopia degli accordi presi di recente con la Libia in tema di migranti, perfino in linea con l’allarme umanitario ribadito in questi giorni e condiviso dal Governo italiano sulle loro condizioni nei centri di accoglienza libici, molto più simili a sordidi spazi carcerari che ad acconci luoghi di inclusione per rifugiati. Così ce li mostra, nel loro aspetto rovinoso e guasto, il film. Che esplora umanità, ambienti e situazioni con gli occhi di Corrado Rinaldi (Paolo Pierobon),  autorevole funzionario del Ministero dell’Interno incaricato di trovare con Tripoli un accordo  per arginare l’immigrazione illegale verso l’Italia e l’Europa.

Un sistema di poteri, rivalità e scontri

Azione che egli, esperto in missioni internazionali, conduce muovendosi tra le diverse realtà libiche e mettendo il naso nel complicatissimo sistema di poteri, di rivalità e scontri tra fazioni che lacerano il paese, altro evidente ostacolo ad un agevole patto.  Accanto a lui  Luigi Coiazzi (Giuseppe Battiston) funzionario dell’ambasciata italiana e il collega francese Gérard (Olivier Rabourdin) col quale ha l’aria di aver condiviso altre intraprese ma che presto, per sopravvenuta estenuazione, gli annuncia il suo ritiro da quella corrente. Più o meno solo, pazientemente e faticosamente, con l’aiuto rassicurante di Luigi e quello dell’aiutante Terranova (Fabrizio Ferracane), Corrado riesce a tessere la tela: tornando di tanto in Italia per riferire al ministro e incontrare fugacemente ma intensamente sua moglie Cristina (Valentina Carnelutti).

Quell’accoglienza ha il sapore della detenzione

Il gioco sembra fatto: più denaro europeo ai libici per migliorare l’accoglienza e ampliare la ricettività, frenare il loro stesso affarismo nel traffico di disperati, bloccare gli imbarchi già nelle loro acque territoriali riportando indietro i migranti. In uno status di accoglienza da leggersi però come detenzione. Ma questo a Corrado non deve interessare: il suo compito non può riguardare aspetti umanitari. Egli è uomo tutto d’un pezzo, meticoloso come un orologiaio svizzero, l’ordine prima di tutto, incluso quello nel modo di piegarsi le camicie sul letto o di collezionare ampolle con la sabbia delle spiagge visitate nel mondo: per quello lo hanno spedito là, per quella sua prerogativa forse capace di governare il caos. Guardando diritto e risolvendo problemi, seguendo un principio ineludibile: mai aver rapporti diretti con i migranti (più o meno come ragionerebbe un killer con le sue vittime) perché l’obiettivo è un altro. Da perseguire con vocazione strategica, scegliendo il momento per difendersi e quello per attaccare, come gli ha insegnato la scherma che ha praticato in dimensione olimpionica.

La donna somala che fa vacillare le certezze

Ma vacilla, la certezza del funzionario, che comunque è tutto fuor che disumano, quando nel centro-prigione di Tripoli incrocia Swada (Yusra Warsama), una giovane somala cui là dentro le guardie hanno ammazzato il fratello, che lo scongiura di aiutarla a raggiungere il marito in Finlandia. E l’ordine delle cose sembra cambiare in un ribaltamento prospettico che modifica lo sguardo, diventando improvvisamente il centro del film. Meglio, la sua stessa coscienza. Che di sicuro non contrasta con le logiche della missione del protagonista ma serve a mostrare, come si dice, l’altra faccia della medaglia. E se alla fine Corrado, nonostante i dubbi e i primi passi d’aiuto alla donna decide di fermarsi  e di non agire beh, anche questo rientra nell’ordine delle cose di un uomo che coerentemente mette il suo dovere di Stato davanti a tutto il resto.

Quei fatti immaginati e diventati realtà

 Il film ha lo stesso titolo di un romanzo del 2013 di Paola Capriolo, che scrive benissimo e con invenzione luminosa. La storia, però, col libro c’entra zero e ne è, si può dire, agli antipodi. Coincide, appunto, solo nel titolo, cosa che va detta per schivare interpretazioni e attese devianti. Al proposito “Personaggi e fatti - annuncia la didascalia di testa - sono immaginari, autentica è la scelta sociale e ambientale che li produce”. Che poi siano soprattutto i fatti, immaginati ex ante, a specchiarsi nella realtà più recente è un merito da accordare a Segre, alle sue capacità di osservazione, intuizione ed analisi oltre, naturalmente, le pratiche d’esperienza diretta.

Rigore e oggettività nel racconto cinematografico

Il racconto, che con questi presupposti si svolge, segue nello stile una precisa indicazione di rigore e di oggettività in un profilo quasi di cronaca: dove la macchina da presa, distanziante nella fotografia di Valerio Azzali), si spartisce abbastanza equamente gli spazi fra gli atti di Corrado e il suo campo di osservazione, gli esterni lattescenti e gli interni tenebrosi, l’apparenza e la sostanza, la finzione e la realtà. Il sistema è complesso e, in fondo, chiama in causa l’essenza stessa del cinema al di là dei contenuti che restano, ovviamente, al centro del film e che, a loro volta, si scompongo in una bipartizione che separa la missione diplomatica tout court dalla vicenda, più intima e personale del protagonista, della donna somala e della sua richiesta d’aiuto.

La misura recitativa di Paolo Pierobon

Pubblico e privato, insomma, tutto in toni sommessi, l’uno accanto all’altro, meglio, l’uno “dentro” l’altro. Due film? Non proprio e comunque soltanto in parte. Perché l’epilogo si realizza armonicamente nell’insieme, senza incrinature. E la tenuta dell’irreprensibile funzionario, che preferisce dimenticare tutelando la propria impermeabilità alle emozioni, conserva al costrutto una sua integrità (anche morale) e una sua logica. Senza abbandonarsi al sentimentalismo facile o, peggio, al patetismo. Virtù riflesse anche nella recitazione di Pierobon, ammirevole nella custodia di una misura solida e costante; e in quella di Battiston che lo affianca come una guida sedativa e smaliziata.

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Parthénos Distribuzione, Ufficio stampa film Lucrezia Viti, Livia Delle Fratte, Gabriele Carunchio, foto © Massimo Calabria Matarweh
Gli attori Khalifa Abo Kraisse, Olivier Rabourdin, Giuseppe Battiston, Paolo Pierobon, Fabrizio Ferracane nel centro di accoglienza a Tripoli in una scena del film

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Claudio Trionfera

Giornalista, critico cinematografico, operatore culturale, autore di libri e saggi sul cinema, è stato responsabile di comunicazione per Medusa Film e per la Mostra del cinema di Venezia

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