La La Land
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La La Land, perché (forse) non merita l'Oscar

Tentazione di “exit” dal film del momento, revisioni critiche, polemiche sui social. Sotto accusa la visione del jazz, i sessi e perfino il razzismo

Il materasso anatomico a triplo strato sta diventando un letto di procuste.  14 nomination agli Oscar (uguagliati i record del Titanic di James Cameron e di Eva contro Eva di Joseph L. Mankiewicz) non bastano a La La Land, film del momento e primo negli incassi anche in Italia, a vivere giorni sereni in attesa delle statuette. Anzi, sembra si stia facendo di tutto per mandargliela di traverso, quell’attesa.

Sarà, ma dalle sue prime apparizioni all’apertura della Mostra di Venezia e via via agli altri festival di Toronto, Telluride,  Londra e molti altri nel mondo, il vento è un po’ cambiato, sostituendo al fragore delle grida entusiastiche  il brusìo cupo dell’insofferenza, il mugugno dell’insoddisfazione se non addirittura il ringhio della polemica. Insomma piace ancora questo film?

E il suo regista (e sceneggiatore) Damien Chazelle è da considerarsi tuttora l’enfant prodige del cinema mondiale? A sentire gli spifferi  che provengono da diverse latitudini della critica (all’inizio osannante) e molti social, specie Twitter, viene qualche dubbio. Le considerazioni sono  almeno cinque, come dosi di un veleno strisciante. Con una piccola conclusione. Vediamo quali.

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1) Non è tutto jazz quel che riluce
Viene voglia di parafrasare il titolo del musical di Bob Fosse, che poi sarebbe un altro degli ispiratori stilistici di Chazelle insieme con Vincente Minnelli, a proposito della traccia musicale di La La Land. All That Jazz, lo spettacolo comincia? Fino a prova contraria e fino ad un certo punto. 

Proprio il jazz, dominante nella filosofia del film e in quella cinematografica del suo autore – tanto nell’opera prima Guy and Madeline on a Park Bench (2009, in bianco e nero, poche decine di migliaia di dollari d’incasso) quanto nel celebratissimo Whiplash (2014) – è diventato un terreno di scontro tra estimatori e denigratori.

Del resto il jazz, per sua natura, è ancora movente di un contrasto cromatico black/white con relativa interpretazione, non solo riferita all’arte ma anche alla tendenza egemonica del bianco, frutto di un diffuso mal di pancia per il nuovo corso politico degli Stati Uniti considerato troppo “nostalgico” di quella tendenza.

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2) Un regista ideologicamente “snob”
Ma c’è dell’altro. E più in profondità. Sul tema s’è mosso il poco compassato e molto liberal The Guardian, interpretando con voce britannica – e toni anche garbatamente difensivi del film - ciò che si dice in giro del comportamento di Sebastian (Ryan Gosling), protagonista della vicenda di LLL, che prima sogna di aprirsi un locale fondato sulla grande tradizione del jazz, poi, per amor di Mia (Emma Stone) si “vende”, diciamo così, alla contaminazione fusion (cioè rock e funk) nella band dell’amico Keith, interpretato da John Legend, presentata in cifra svalutativa e scollegata dalle sue origini. Bene.

Gli appassionati del jazz considerano fasulla questa rappresentazione del dibattito all’interno della comunità musicale, come riferisce sul sito Vulture la firma brooklyniana di Seve Chambers. Il titolo del post, “La La Land è all'oscuro di quello che succede nel  Jazz”, la dice lunga, arrivando a bollare Chazelle di “snobismo ideologico”.

Perché il protagonista è dipinto come un romantico costretto a capitolare per sopravvivere, mentre l’attualità artistica e culturale racconta l’opposto concetto di un jazz che per sopravvivere a sua volta (e in fondo a se stesso), deve svincolarsi  dalle proprie radici e da ogni vocazione conservativa.

3) Il sospetto di un fondo “razzista”
E c’è pure chi lascia aleggiare qualche sospetto di “razzismo”, magari involontario, magari indotto, sempre attorno a quella musica jazz che potrebbe sembrare un pretesto ma che per molti restano davvero il motore del film e il suo nucleo creativo. MTV News tuona attraverso Ira Madison III con un titolo che suona “La La Land, bianca narrativa jazz” e in sommario “Il tributo alla musica jazz di Damien Chazelle è un cavallo di troia salva-film in scarpe da tip-tap”.

Resta inspiegabile, nell’articolo, il fatto che i neri del club dove si svolge l’azione restino del tutto ipnotizzati dalla coppia Gosling-Stone; e che John Legend, nella parte di un musicista jazz con la sua band di grande successo, vada a convincere Gosling di unirsi al suo gruppo perché nessuno come lui ha talento nel sollecitare gli avòrii della tastiera con le sue mani bianche e perlacee. Ma non basta.

L’altra zona della tesi è che se si gira un film su un artista che vuole restare fedele alle radici del jazz contro il rischio di una revisione moderna del genere, solo un nero potrebbe avere, per così dire, il diritto di farlo.

Ancora: il jazz è un genere nero americano e molti dei suoi più famosi rappresentati come John Coltrane e Charles Mingus sono stati fortemente impegnati  nel movimento per i diritti civili. E forse non è un caso che il musicista più amato da Sebastian-Gosling  sia Charlie Parker, che morì nel 1955, prima che il movimento incominciasse.

4) La guerra dei sessi
Non poteva mancare la polemica sui sessi. Per esempio: dove sono i gay? Diverse critiche sono piovute sul film per l’assenza di personaggi con riferimenti i questo tipo. Eppure fioccano post e proteste sulla non trascurabile circostanza che a Los Angeles  fossero presenti ieri, così come oggi, un sacco di persone gay e che l’averne trascurato nel racconto presenza e partecipazione non è un buon segno. Anzi. È risolto a Hollywood il problema della discriminazione?

Si preferisce ancora confezionare un progetto ambizioso in cornici neutre, innocue e dorate? Domande da risolvere altrove, probabilmente. Del resto anche il personaggio femminile di Mia, dunque la recitazione di Ema Stone, hanno le loro gatte da pelare.

Una sovraesposizione e uno svolazzare di premi (Golden Globe già acquisito) considerati eccessivi per una figura da alcuni considerata secondaria nell’economia della storia, dove lei è poco più di una spettatrice e dove il vero protagonista è Sebastien-Gosling col suo impegno didattico del jazz verso Mia, il suo entusiasmo sentimentale.

Dunque il “ lui” – cosa non nuova in Chazelle - a far tutto:  a chiederle di uscire, a presentarle il jazz, a farle vedere Gioventù bruciata al cinema nonostante sia lei la presunta cinéphile. Risvolto della medaglia? Che il film e il suo autore abbiano vocazioni maschiste.

5) Una grande bolla spettacolare
Leggero. Una meringa. Una bolla spettacolare. Anche queste riflessioni agitano il mare attorno a La La Land. Forse le meno polemiche, aggressive, cavillose e investigative. Sta di fatto che l’attuale rivisitazione critica sul film ne accentua, senza mortificarne i pregi obiettivi, i limiti congeniti alla sua superficialità e alla sua inclinazione al puro – e come concetto un poco riduttivo – divertissement.

Il fiume di canzoni, i colori vivaci degli abiti, il virtuosismo scenico nascono per emozionare, sbalordire, allietare, intrattenere nel senso più compiuto del termine. Vietato pensare. Con una ammissione e un riconoscimento: per  milioni di americani ansiosi, angosciati e tribolati per le sorti attuali del loro Paese  (in realtà, poi, ci sarebbero anche quelli dall’altra parte che preoccupati lo sono di meno) La La Land è la risposta giusta a un disperato bisogno di distrazione e di sfizio.

Una conclusione
C’è davvero voglia di “exit” da La La Land? Inevitabile che qualcuno ne prenda le distanze nel coro di generale consenso. Su un film che, va detto, ha incominciato molto presto la sua corsa al successo. Talmente in anticipo, specie negli Stati Uniti, da rischiare l’overdose, l’insistenza ossessiva con tutti i colori dell’eccesso. Incluso il segmento dei premi passati e a venire, le nomination qua e là, i sette Golden Globe su sette candidature, l’en plein nelle sale e al box office.

Abbastanza da scatenare gelosie, livori e rivalità d’ogni risma. S’è avuta occasione, anche sulle piattaforme di Panorama, di dar conto dell’opera e dei suoi numerosi pregi stilistici, del suo essere squisitamente rétro ma con gli strumenti delle più avanzate tecniche cinematografiche, dell’estetica capace di mescolare il Cinemascope con la steadycam, dell’omaggio inesausto ai maestri dell’epopea del musical  e all’età del jazz, della sua capacità di creare armonie e geometrie danzanti, di stupire e, a momenti di commuovere. Senza, con questo, dimenticarne certe stasi narrative nei 128 minuti di durata e taluni babilonismi nel segmento centrale.

Positivo resta in ogni caso il fragore, bianco o nero che sia, attorno all’oggetto della contesa. Che rimane, al di là di ogni altra considerazione, uno spettacolo terapeutico per il cinema. Così come a sospingere, a muovere e in qualche modo ad accelerare ulteriormente il film sono le polemiche, in alcuni casi perfino pretestuose. Altra benzina dunque: secondo le leggi stazzonate ma sempre efficaci della comunicazione e del contradditorio.

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Claudio Trionfera

Giornalista, critico cinematografico, operatore culturale, autore di libri e saggi sul cinema, è stato responsabile di comunicazione per Medusa Film e per la Mostra del cinema di Venezia

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