Il Padrino, dopo 40 anni è ancora un mito
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Il Padrino, dopo 40 anni è ancora un mito

Il 21 settembre 1972 usciva in Italia uno dei film più belli di tutti i tempi. Segreti, novità e retroscena di un capolavoro nato sotto i peggiori auspici

La Paramount era in difficoltà, e non avrebbe retto un altro fiasco. Francis Ford Coppola più che altro aveva bisogno di soldi, per saldare un debito con George Lucas e finanziare un altro film a cui teneva molto di più. Anche a Marlon Brando faceva comodo rimpinguare il conto corrente: con tre matrimoni falliti alle spalle e cinque figli, pagare gli alimenti non era uno scherzo. Al Pacino, almeno lui, era entusiasta, ma quasi nessuno gli dava credito, considerandolo brutto, piccoletto e inadatto alla parte. E, dulcis in fundo, già prima di inziare le riprese la comunità italoamericana aveva scatenato un pandemonio, ritenendosi offesa da un copione che autorizzava l'equazione "italiano uguale mafioso".

Con queste premesse, che cosa poteva venire fuori? Semplice, uno dei più grandi film di tutti i tempi, diretto benissimo e recitato meglio, campione d'incassi e vincitore di tre Oscar. In una parola, Il Padrino, un capolavoro che in Italia arrivò giusto quarant'anni fa, il 21 settembre 1972. Anche da noi, come in tutto il mondo, non fu solo un successo commerciale, ma un fenomeno culturale e di costume. Un mito entrato nella vita di tutti, cambiando il nostro modo di scherzare e di parlare, e mai più uscito. Si rinnova periodicamente, ogni volta che qualcuno (scherzando, si spera) minaccia di farvi trovare una testa di cavallo nel letto, o propone un'offerta che non potrete rifiutare, o ancora pronuncia la parola business, strascicandola con inflessione siciliana e voce roca. Come faceva Brando, nei panni di uno dei personaggi simbolo del XX secolo: don Vito Corleone.

Ricordate la prima scena del film? In una stanza buia, il silenzio è rotto solo dalle parole di Bonasera, un italiano emigrato in America ormai da una vita. Vuole un favore dal padrone di casa, don Vito appunto. La figlia è stata pestata da due balordi che volevano violentarla e, visto che la giustizia dei tribunali è stata troppo mite, a dare loro il giusto castigo dev'essere qualcun altro. L'uomo potente e temuto che ancora non si vede, se non di spalle, e ascolta senza muovere un muscolo. La macchina da presa gira, mentre il misterioso anfitrione si sfiora i baffi con la mano. Una lunga pausa, poi Corleone comincia a parlare...

La prima cosa a colpire è la sbalorditiva metamorfosi di Marlon Brando. Con il passare dei minuti, però, si capisce che c'è molto, molto di più: la potenza espressiva di Coppola, capace di trasformare quello che doveva essere un film di genere, tutto cazzotti e sparatorie, in una saga travolgente ed epica. Un'attenzione meravigliosamente maniacale alle scenografie, alle musiche, ai paesaggi, ai vestiti, ai più piccoli dettagli. E soprattutto, la scelta “scandalosa” di raccontare una famiglia criminale senza compiacimento né moralismo, come se fosse una famiglia qualsiasi. Se il feroce don Vito in famiglia si comporta come un padre saggio e bonario, sembra dire Coppola, non c'è problema. A Hollywood, fino a quel momento, spesso i mafiosi venivano dipinti come gli indiani dei film western: dovevano fare la figura degli animali, perché meglio risaltassero le qualità dei “buoni”. Qui però di eroi ce ne sono ben pochi, tra politici corrotti, traditori e uomini d'affari solo apparentemente rispettabili. E poi questo non è un action movie, ma un dramma cupo che enfatizza le ansie di un vecchio preoccupato per i figli, stanco dell'ostilità yankee verso gli italiani, consapevole che la sua ora sta per scoccare. Anche se il protagonista è un assassino, insomma, tutti possono comprendere e condividere i suoi sentimenti: è questa la vera rivoluzione firmata da Coppola.

All'epoca era un giovane regista semisconosciuto, che entra in ballo solo dopo che tutti gli altri candidati (tra cui anche Sergio Leone) hanno declinato l'offerta di dirigere un film che a molti sembrava vecchio e di scarso interesse: a chi potevano interessare le scaramucce tra mafiosi negli anni della Guerra in Vietnam? Se non altro, pensano alla Paramount, il suo cognome e le sue origini smonteranno sul nascere le accuse di razzismo, che già gli italiani d'America stavano lanciando. Ansioso di racimolare la cifra necessaria a girare La conversazione (che uscirà due anni dopo, e sarà un altro gioiello), Francis dice sì ma si dimostra molto poco malleabile. I produttori vogliono una storia ambientata negli Anni 70, ma lui preferisce il secondo Dopoguerra e non sente ragioni. Per il ruolo del protagonista, vuole Laurence Olivier o Brando: il primo però è malato, per cui non resta che Marlon. L'attore dice sì, ma ha poco tempo a disposizione: ha firmato il contratto con Bertolucci per Ultimo tango a Parigi, perciò bisogna far presto. C'è un altro ostacolo, però: come fa un sex symbol di fama mondiale, di soli 48 anni, a impersonare un boss vecchio e brutto? Non c'è problema: il divo si riempie la bocca di cotone, fino ad alterarsi i lineamenti: ora sembra un bulldog. Baffetti e brillantina completano l'opera: è nato il padrino.

Dopo i primi test, però, scoppia la grana Al Pacino, scelto per impersonare l'erede di don Vito, Michael. Molti negli studios lo ritengono una nullità, sgradevole alla vista e di scarsa personalità: complimenti per il fiuto... Coppola s'impunta , e la vince anche stavolta. Toccherà anche a lui finire sulla graticola, ma a levarlo dai guai ci penserà Brando, minacciando di lasciare il set se il regista fosse stato licenziato. In questa bella atmosfera, le riprese iniziano alla fine di marzo nel 1971: dureranno poco più di due mesi. Molti si aspettano che Brando faccia il divo, creando mille difficoltà, e invece l'attore si rivela un burlone di prima categoria: subito prima di girare la scena in cui don Vito, convalescente dopo un attentato, viene trasportato su una barella, nasconde sotto le coperte una serie di pesi, costringendo così i portantini a sollevare circa 300 chili. Quando poi gli dicono che l'attore Lenny Montana ha crisi di panico all'idea di girare con una star come lui, lo affronta sul set con un biglietto attaccato sulla fronte che recita semplicemente "Vaffanculo".

Di aneddoti, parlando del Padrino, ce ne sono un'infinità. Frank Sinatra chiede la parte di don Vito, ma per la terza volta Marlon Brando gli scippa il ruolo che voleva: era già successo con Fronte del porto e Bulli e pupe. Nella celebre scena in cui un produttore cinematografico si ritrova nel letto la testa del suo purosangue preferito (un castigo per aver negato un favore ai Corleone), le urla di orrore dell'attore John Marley sono autentiche: nessuno lo aveva avvertito che sarebbe stata usata una vera testa di cavallo (fornita da una fabbrica di cibo per cani). Per creare l'inconfondibile voce del suo personaggio, Brando si ispira al vero gangster Frank Costello, che aveva visto in un programma televisivo. Sylvester Stallone fa un provino per il ruolo di Carlo, genere di don Vito, ma viene scartato da Coppola. Non se la prende, però, e al momento di girare Rocky ingaggia Talia Shire, sorella del regista, che qui interpreta Connie, la figlia del boss.

Potremmo andare avanti per ore, ma fermiamoci ai fatti. Costato 6 milioni di dollari, Il Padrino ne incassa 86 solo negli Stati Uniti. La Paramount respira, il film va alla conquista del mondo e vince l'Oscar per il miglior film e la miglior sceneggiatura. Inevitabilmente premiato come miglior attore, Brando diserta la premiazione per protestare contro il trattamento riservato ai pellerossa dal governo americano, e anche da Hollywood: la statuetta viene ritirata da una squaw Apache, tra l'incredulità generale. Anche Al Pacino, destinatario di una nomination come miglior attore non protagonista, non si fa vedere: è arrabbiato perché si sente quanto meno un co-protagonista, e non ha tutti i torti. Competere con Marlon, però, era impresa ardua anche per un fuoriclasse come lui. Avrà presto modo di rifarsi: già due giorni dopo l'uscita nelle sale, i produttori si mettono al lavoro per girare Il Padrino parte II. E gli faranno un'offerta che non potrà rifiutare.

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Alberto Rivaroli